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9 Settembre 2014 | cult | karenomusic | ![]() |
Partiamo da lontano. Dal 2003. C’è uno stanzone illuminato. Una donna compare nell’inquadratura: tavolate deserte, qualche addobbo qua e là, palloncini appesi al soffitto. E’ forse finita una festa? La regia ci mostra una troupe intenta a girare un videoclip, anzi un meta-videoclip. Bene, vai col playback. La band sale sul palco e la cantante, una Olivia di Popeye dal look indie-punk e con echi vocali dai Frou-Frou fino a Siouxsie Sioux, quasi piangendo, esegue. E’ un cuore sospeso nel vuoto, il suo. Potrebbe esplodere. Come un palloncino. Lacrime più forti di qualsiasi finzione. Tuttavia la troupe resta impassibile.
E’ il videoclip di “Maps”, prima e forse più grande hit degli Yeah Yeah Yeahs, band a cui dà voce Karen O, al secolo Karen Lee Orzolek, nativa sudcoreana, venuta al mondo nel 1978, anno in cui, neanche a farlo apposta, i Banshees esordirono col loro “The Scream”. Certo è che dal 2003 ad oggi Lady O ne ha fatta di strada, ed oltre alla carriera con gli Yeahs, in quanto a collaborazioni, non si è negata praticamente nulla. Qualche nome? David Lynch, Trent Reznor & Atticus Roos. Uno su tutti? Spike Jonze, il regista che ha goduto dei suoi servigi cantautoriali negli ultimi due lungometraggi, con risultati sorprendenti, come ad esempio “The moon song”, tratta da “Her”.
E dunque veniamo a “Crush Songs”, sua prima opera solista. Fin dal titolo capiamo che sarà l’amore nella sua dimensione più intima, e più sofferta, a farla da padrone. “Love’s a fucking bitch” recita un verso di “Rapt”, primo singolo estratto dal disco. Ed ecco che dopo i bagordi dance e synth-pop della recente produzione targata Yeahs, ovvero “It’s Blitz” e “Mosquito”, tutto diventa più scarno, trasandato, come un amante ferito che si lascia morire. Una chitarra acustica, spesso scordata, un’episodica drum machine, un organetto in sottofondo, e poi la voce di Karen. A tratti intensa. A tratti immensa. Unica nota davvero positiva di un disco che complessivamente scorre via abbastanza piatto. Poi certo, intorno al sedicesimo minuto, già oltre la metà della sua durata , qualcosa accade: un’esplosione improvvisa, urla, distorsioni. Ma e’ solo per un attimo. In fin dei conti, già la copertina diceva tutto. Uno schizzo, un disegno incompleto, un bacio. E nulla più.
Le canzoni stesse, risalenti a quando l’autrice era ventisettenne, sembrano essere state immortalate nella loro “idea di partenza”, come una storia chiusa bruscamente, prima che potesse sbocciare. Un senso di stanchezza ci accompagna verso la fine, suggellato dalla filastrocca “The king of pop is dead, no one’ll ever take his place”. Che sia New York la capitale della Noia?
Ok, sarà vero che di questo disco, forse, ci porteremo nel cuore la sola “Rapt”, con la sua aura così decadente, ma è anche vero che se il re del pop è morto, Lady O ha ancora tutte le carte in regola per diventare lei, un giorno, la regina.
P.S: la traccia fantasma del disco è l’Estate Indiana dei The Doors. E la Cult Records e’ di Julian Casablancas.
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