Julian Casablancas + The Voidz – Tyranny

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La moda e le modelle, l’impero del padre, la Svizzera vista attraverso L’Institut Le Rosey, Nikolai e Albert, il divorzio sofferto dei genitori, l’alcol e la disintossicazione. Forse nessuno si è mai chiesto veramente cosa ci sia dietro il frontman, l’anima della band che cauterizzò con chewingum e vintage, le ferite di un’America sconvolta dagli attentati. Con ‘Tyranny’, Julian si racconta liberamente, smarcandosi completamente da quel giogo compositivo che negli Strokes cominciava a stargli davvero stretto. Quasi fosse una pratica liberatoria.

Conobbe i futuri “Voidz” una sera qualsiasi nel centro di New York: birre e shorts fino alle 3 di notte, discussioni e confronti. Sulla strada del ritorno, osservandosi in compagnia di quei ragazzi, pensò che non avrebbe mai voluto incontrare una cricca del genere in un vicolo buio di Manhattan. Fu subito amore fraterno. Tyranny è l’album del Casablancas a tutto tondo. Aggiunge al canovaccio Wave già assaporato con il precedente ‘Phrazes For The Young‘, tutte quelle sfumature, spesso agli antipodi, responsabili della propria crescita interiore e fioritura artistica. Julian, questa volta vorrebbe essere universale, facilmente comprensibile da chiunque, puntando il dito verso la Modern Age. Non sentendosi né particolarmente incline al messaggio politico, e neppure così radicale dal dedicarsi all’autoflagellazione in onore di un ideale, scommette forte sul trasporto emotivo, sul forgiare strumenti capaci di eludere questa realtà, edificandone di migliori. Parla di bolle di sapone nelle quali isolarsi dalla realtà, dove una flebile democrazia incoraggia il ritorno di sistemi feudali e tirannici.

Nascono così i presupposti per sperimentare liberamente i propri istinti, la propria estetica, in un contenitore senza pareti nel quale il Garage Rock rielaborato degli esordi ‘Crunch Punch‘, si sposa con l’intensità di un vero pezzo Hardcore ‘M.utally A.ssured D.estruction‘. Un posto dove i 10 minuti di ‘Human Sadness‘ altro non sono che il prolungamento naturale del concetto alla base di tutta la saga degli Strokes. L’artista Newyorkese pesca a piene mani dall’underground che da sempre contraddistingue la propria città, sia questo rappresentato dal Post-Punk di ‘Where No Eagles Fly‘,  dalla Wave in odore di Talking Heads di ‘Father Electricity‘ o dagli echi Velvettiani che Julian possiede nel Dna, ma non solo. Succede anche di sbalordirsi al passaggio di  ‘Dare I Care‘, mentre orizzonti speziati si aprono magicamente e una mano tende verso oriente in segno di pace. Infondo, questi racconti di vita da bohémien e di ribellione verso il potere, sono da sempre il modus operandi di un artista che ad ogni lavoro ridimensiona la propria cifra stilistica, ampliando un percorso che da quella New York City Cops continua a fare strada.