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9 Settembre 2014 | Nostromo | esbenandthewitch | ![]() |
C’era una volta un bambino che si era perso nel bosco, e non riusciva più a trovare il sentiero di casa. Ovunque volgesse lo sguardo, soltanto notte. Finché non vide un fuoco. In lontananza. Dunque lo raggiunse. Vicino al falò c’era una donna. Lei lo guardò e gli disse: “lascia che ti racconti una storia. E’ una fiaba che si tramanda dalle mie parti, nella lontana Danimarca. La fiaba di “Esben and the Witch”. Secondo la leggenda, al termine del racconto, il bambino sarebbe diventato un uomo.
Brighton, 2014. C’è una band che porta lo stesso nome di quella fiaba. E sta affrontando un momento critico. Infatti, dopo aver dato alle stampe negli ultimi sei anni alcuni ep e due full lenght per l’etichetta Matador Records, lasciandosi alle spalle una serie di brani oscillanti fra shoegaze, dream pop e post-punk, senza disdegnare suggestioni electro e post-rock, il gruppo in questione, composto da tre ragazzi, decide di cambiare rotta. Lascia la Matador, ed auto-producendosi intraprende un impervio, ed oscuro sentiero. Alla ricerca del fuoco. E di una nuova consapevolezza di sé. Per farlo, Rachel, Daniel e Thomas, ovvero gli “Esben and the Witch”, volano fino a Chicago, presso lo studio Eletrical Audio, dove ad attenderli c’è Steve Albini, il nostro “Dude Incredible”. Il risultato è questo nuovo LP: “A New Nature”. Ne sarà valsa la pena?
Per chiunque abbia ascoltato il loro disco d’esordio, dal titolo “Violet Cries”, e poi il successivo “Wash the sins not only the face”, la svolta potrebbe suonare addirittura radicale. E di fatto lo è. Ma se osserviamo con attenzione i vecchi brani, noteremo che già erano presenti tutti gli elementi che sarebbero poi andati a confluire nell’agognata opera terza. L’incedere marziale della batteria. La vena cantautoriale di Rachel Davies, così stretta nei confini epidermici del pop. E le chitarre di Thomas Fisher che, qui e là si percepiva, non vedevano l’ora di mandare affanculo certi riff alla Editors. Che sia d’esempio “Iceland Spar”, la traccia d’apertura del precedente disco. Una delle canzoni più ariose mai realizzate dal gruppo, eppure emblema di una certa ambiguità, od irrisolutezza. Ad ogni modo, di un nodo da sciogliere.
Fin dai primi minuti, ci rendiamo conto che la musica è davvero cambiata. E la patina sognante che un tempo avvolgeva i brani si è come dissolta. Arpeggi minimali. Melodie sussurrate che preludono a future isterie. Liriche verbose ed intricate. Irruzioni di chitarre stoner che spargono acido sul deserto della nostra coscienza. In un lungo, a tratti estenuante, crescendo d’intensità che non esplode mai veramente del tutto. E’ come se il mare di nebbia si fosse diradato attorno al viandante, svelandogli che non si trova più sulla cima del mondo, ma nel mezzo di una landa desolata. E che per aspirare all’assoluto (“Press Heavenwards!!” La prima traccia) bisogna prima sprofondare, confondersi con la terra (“Dig your fingers in”, la traccia n.2). Un parziale spiraglio di luce, si fa per dire, ce lo offrono i sei minuti di “No Dog”, brano in cui i Bauhaus di “In the Flat Field” e i Siouxsie & The Banshees di “Sin in My heart” incrociano Pj Harvey lungo la Selva Oscura, e se ne vanno tutti insieme. A sbranare chiunque capiti sul loro cammino. In un simile contesto, il verso “I’m no dog. I’m a wolf” potrebbe rievocare il celebre “Homo homini lupus” adottato da Hobbes per la sua teoria sullo stato di natura. Ma, a mio modo di vedere, si tratta solo di uno specchietto per allodole.
Queste canzoni non raccontano di un’auspicata fuga dalle minacce del regno naturale, ma anzi, ci spronano a fonderci con esse, ad immergerci nel profondo del loro mistero. E del nostro dolore. E’ vero. Questa landa desolata è più pericolosa di una giungla. Ma è della giungla della psiche che stiamo parlando. Lì dove albergano gli archetipi del nostro inconscio, come anche i simboli presenti nei miti e nelle fiabe. Lì dove risiedono le pulsioni più nascoste, che a volte sembrano tornare a galla in sincronicità con gli eventi che ci circondano. Se sbirciamo in un dizionario dei simboli, alla voce “Strega”, leggeremo che “Finché le forze oscure dell’inconscio non assurgono alla chiarezza della conoscenza, dei sentimenti e dell’azione, la strega continua a vivere in noi” .E poi, usando le parole di Jung: “ ella incarna i desideri, i timori e le altre tendenze della nostra psiche che sono incompatibili con il nostro io, sia perché sono troppo infantili, sia per tutt’altra ragione”. Alla fine del viaggio, sembra dirci Rachel, che fra l’altro nelle interviste dichiara di essere amante della poesia di Sylvia Plath, avremo raggiunto un ulteriore, e viscerale, stadio della conoscenza. Una nuova natura.
Infondo, il problema di questo disco è che, dopo il tornado della suddetta “No dog”, tutto l’insieme, dalle melodie, fino alle trame di basso e chitarra, si avviluppa su di sé, senza più regalare forti emozioni. E non basta qualche squillo di tromba, o un pugno di vocalizzi alla Patti Smith nella penultima “Blood teachings” , per destarci dal torpore. Senza contare che la durata spesso eccessiva dei brani risulta ingiustificata rispetto all’effettiva quantità e qualità di spunti che possiedono. Si ha quasi la sensazione che le parti strumentali fungano da mero pretesto per i lunghi monologhi di Rachel. Ma forse mi sbaglio. Fatto sta che, sulla lunga distanza, a prevalere è la noia. Rimane comunque la stima per un disco che nasce da un’idea, e che, pur con diverse cadute, la porta a conclusione, mettendo a segno qualche punto.
“…e così finisce la favola di Esben.” Disse la donna al bambino che si era perso, accorgendosi, con sommo disappunto, che si era addormentato.
La mia ragazza, è una grande fan di Siousxie e dei Bauhaus. Per questo le ho fatto ascoltare “No Dog”. E’ rimasta indifferente.
[schema type=”review” name=”Esben And The Witch – A New Nature” author=”Marco Valerio” user_review=”2″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]