Rancid – Honor Is All We Know

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DALL’EPITAPH ALL’EPITAFFIO

Ovvero: del perché i Rancid non sono più un gruppo punk, e forse non lo sono mai stati.

Sezione 1: Fenomenologia di una morte apparente

Bisogna muoversi con calma qui. Nel Centro Sociale del Punk. Il terreno è scivoloso. Non solo per via dell’urina, o dei liquori versati. Bisogna andarci piano, perché da recensore amatoriale ad emerito stronzo il passo è breve. Ma poi ripenso ai trentadue minuti e spicci di “Honor is all we know” dei Rancid, misera pietra tombale di un cimitero ormai sterminato. Un cimitero dove l’erba cresce a forma di cresta. E tutto mi è più chiaro. Andarci piano non serve.

Cominciamo col dire che il punk per definizione, già da diversi anni, non ha più ragion d’essere, di fatto perché la sua carica eversiva si è dissolta, e la sua spinta dialettica esaurita. Quando nacque il fenomeno del punk, illis temporibus, da una parte si fece portavoce di pulsioni sociali controverse, come il nichilismo, dall’altra diede modo a tanti di esprimersi, grazie al celebre motto “tutti possono farlo”. Inoltre fornì ai suoi seguaci l’opportunità di sperimentare, forse inconsapevolmente, un nuovo vitalismo tribale, destinato però a soccombere, come nella teoria enunciata da Pirandello sul conflitto fra vita e forma, dinanzi a regole d’appartenenza, convenzioni, e strutture consolidatesi nel microcosmo. Detto questo, chi imbracciò gli strumenti per primo, sull’onda di una colata lavica allora inarrestabile, riscrisse le leggi della musica. Per alcuni uccidendola. Per altri facendola resuscitare.

Il punk ebbe il merito di azzerare tutto. E diede vita ad altri movimenti divenuti storici. Come la New Wave, il Post-punk, il Dark e la No Wave. Ma questo vi sarà già noto. E forse vi è anche nota la sua deriva. Già perché il punk, o meglio il concetto di punk fin qui concretizzato da venerati pagliacci della risma dei Rancid, si è col tempo sclerotizzato entro rigide strutture. Mentali prima che stilistiche.

E così, a furia di slogan ruffiani, di schemi oltremodo reiterati, e di una pressoché totale assenza di fantasia, il punk ha smarrito la propria vocazione anarchica. Ma il suo spirito non è morto. E’ “semplicemente” sbalzato fuori dal cammino che porta il suo nome. Come da un auto in corsa. Paradossalmente, da quando è rimasto uguale a sé stesso, il punk non è più lo stesso. Senza contare che, oggi il punk, prima di essere un genere musicale, è innanzitutto un marchio. E anche piuttosto redditizio. Tim Armstrong e soci questo lo sanno bene. Non ci perderemo ulteriormente in rimasticature adorniane sul totalitarismo della società di massa, o sui modi in cui l’industria culturale tenda ad assorbire le voci discordanti, neutralizzandole, e assegnando loro un posto, alla pari di quelle acritiche, nel suo imponente meccanismo, affinché tutto sia conforme. Cercheremo invece di capire come sia possibile, separando lo spirito originario del punk da quello falso e posticcio degli epigoni, il superamento di questo stallo.

Sezione 2: Lo spettro della tradizione

Strano a dirsi. Anch’io fui adolescente. E per certi versi sono ancora nel buco nero. ‘Sti cazzi, direte voi. Ci sta. Anch’io, quando capitava, mi dimenavo nei centri sociali. Anch’io ascoltavo i Rancid, e spendevo buona parte delle mie paghette in spillette, magliette e birrette. “…And out come the wolves“. Come dimenticarlo. Indubbiamente è un disco che conserva ancora una certa energia. L’assolo di basso di Matt Freeman su “Maxwell Murder” è da applausi. La malinconia di brani come “Olimpia W.A” o “Ruby Soho” quasi ti sfiora nel profondo, lì dove il cuore accende i termosifoni, al riaffiorare di stagioni felici. Maledetti ricordi( pericolosa somiglianza con il termine inglese “recording”, ma sto divagando). E poi “Life won’t wait“, sorta di Sandinista 2.0. Una Patchanka fra Manu Chao e Joe Strummer. Una Mano Negra che mena plettrate Ska, Reggae, e Punk sul songwriting americano. Una furbata. Un cocktail che più che a Cuba, o alla Jamaica, fa volare l’immaginazione sulle spiagge di San Diego. A parte questo, roba che ancora oggi scuoterebbe il Forte Prenestino dalle fondamenta, allargando il sisma verso la Palmiro Togliatti. All’epoca, nei miei anni adolescenti, non mi rendevo conto della natura fasulla del progetto “Rancid”, che adesso, anche alla luce dell’ultimo, ignobile, “Honor is all we know”, si svela in tutta la sua triste e congenita ottusità. O calcolo di mercato, se preferite.

Back where i belong“, già il titolo è una dichiarazione di intenti. Ma non sta scritto da nessuna parte che certi intenti vadano premiati. Il rantolo stonato di Tim Armstrong. Lo strillo appena più melodioso di Lars Frederiksen. Il basso tagliente di Matt Freeman (qui, a dire il vero, meno incisivo del solito). La batteria pestona, come da contratto. Quattro accordi in croce. I soliti inni ad uso e consumo del popolo punk, o di quello che ne rimane. Sterile retorica identitaria. Cianfrusaglieria stradaiola raccattata dall’abecedario del ’77. Fine.

Qualcuno obietterà: “Ma è un tributo al loro esordio eponimo per la “Epitaph Records”. Per me invece è solo un epitaffio senza gloria. Ecco a voi i Clash con zero calorie. Meglio della Coca-cola. E procediamo con “Evil’s my friend“. Una “Time Bomb“( per chi non lo sapesse, uno dei loro classici), riaggiornata. Ed ovviamente disinnescata. Come non citare il reggaettino di “Everybody’s sufferin“, con tanto di organo caraibico. A un tratto si sente Tim biascicare “What a depression”. Che illuminazione. Mi ha strappato le parole di bocca. Si chiude con “Grave Digger“, noioso paradigma hardcore a suggello dell’ennesima collezione di brani interscambiabili del quartetto.

“Honor is all we know” è l’auto-celebrazione di un successo. Di tutto ciò che è già accaduto. Una foto di famiglia in cui ognuno è seduto al proprio posto. E neanche la lente più affilata vi percepirebbe il minimo smacco. Nulla di perturbante. Tutto rassicurante. Nessuna catarsi. Il punk non abita (più) qui.

Sezione 3: Dove lo spirito continua

Non a caso prendiamo spunto dal titolo di un album dei Negazione, che però ci interessano solo come pretesto. Come fase d’elaborazione luttuosa fatta band. È ovvio che il punk, inteso come etichetta, sia parte integrata dell’industria musicale, schiavo com’è di regole e di stilemi che nel corso dei decenni l’hanno portato ad essere poco più che una carnevalata. Un articolo inserito nel catalogo del divertimenti. Adesso mi direte che non è così, e che per molti è ancora una fede. Questo, semmai, peggiora le cose. Ma non tutto è perduto. Perché al di fuori delle etichette, e al di fuori del suo nome stesso, lo spirito del punk è vivo, e lo si può ritrovare in tutte quelle realtà musicali che non hanno paura di infrangere le regole, e di produrre bellezza sfidando, e sconfiggendo, lo spettro della tradizione, per tornare davvero alle origini del punk. Alle origini di quello che sarebbe voluto diventare. E’ uno spirito tragico, e insieme titanico, il suo. E’ la rappresentazione critica, individuale prima che collettiva, di un mondo fatto a misura del nulla. Giusto per fare qualche esempio, trovo che ci sia molto più punk in “Red Medicine” dei Fugazi, in “Halber Mensch” degli Einsturzende Neubauten, o in “Loveless” dei My Bloody Valentine, che in qualsiasi disco dei Rancid. Non ho citato album più recenti, ma se proprio devo, suggerisco “Noctourniquet” dei The Mars Volta.

Un consiglio: se volete andare alla ricerca dei veri figli del punk, cercate fra i bastardi. Cercate fra gli orfani. E soprattutto fra i parricidi. Simbolici, sia chiaro. In alternativa, infilate “Honor is all we know” nello stereo, alzate a palla e gridate ai quattro venti: “Punkabbestia di tutti i paesi unitevi! E accattatevi il disco!”

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