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17 Novembre 2014 | Stolen Recordings | savages boningen |
Vi è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere.
Spazzare, ripulire.
(Tzara T., Manifesto Dada)
È emozionante trovarsi a far parte di un progetto, essere coinvolto in un qualcosa che sia anche minimamente correlato al mondo dell’arte – della sua morte, della sua rinascita -; essere pensato, noi pubblico, come oggetto, e al contempo soggetto, dell’atto musicalmente performativo. L’anarchia dei ruoli di infantile memoria – dove s’è al contempo tutto e niente, dove si ha posizione sociale e si è pedine fuori del gioco, dove si hanno obiettivi e zero obblighi – ritorna con la medesima forza con la quale si riesce a liberare l’arte dal suo essere Arte formale, ovvero dotata di forma. Ristabilire l’espressione più intima, quella prima, del risultato musicale, teatrale e letterario: questo era il punto di arrivo del movimento dadaista.
Obbiettivo primario era provocare il pubblico, condurlo all’esasperazione tramite tutte le declinazioni sceniche dell’assurdo e dell’insulto […] e spingerlo a diventare per complicità o per collera, partecipe all’evento, autore egli stesso, in un anarchica performance collettiva (Balzola, A., Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche elle arti del nuovo millennio)
Elementi fondanti di questo movimento erano l’inconscio, il superfluo – il quale essendo fatto anch’esso di materia umana, lo si considerava di necessaria rappresentazione -, la commistione, il gioco; l’essere goffi e bizzarri in un mondo artistico incravattato. Che se lo si vede da una certa prospettiva – pur sempre approssimativa – sembrerebbe essere un ritorno, espresso in un incessante cavalcata verso il passato, alle forme d’arte non condizionate, non sviluppate, non corrotte: leggerezza di tecniche capaci di stimolare le regioni impalpabili dei sensi e della mente, come ci suggerisce Barilli. Ovviamente tali espressioni liberatorie trovano loro spazio vivo in ambienti d’utopica realtà, ovvero piccole isole di zona franca: e se si parla del movimento dadaista, come andiamo facendo, tale zona la si trovò principalmente in un locale dal nome Cabaret Voltaire. E il luogo per il movimento dadaista non fu per nulla secondario, ma prima fonte di espressione.
E mi si scusi se effettivamente stiamo partendo da piuttosto lontano, e se ancora non è stato detto niente del disco citato nel titolo della recensione. Anche se, a legger bene, in realtà è stato detto praticamente tutto, e ci bastano pochi passi per scoprirlo, o in realtà basterebbe anche solo approcciarsi al disco, dopo questa prima breve introduzione. La collaborazione che qui presentiamo tra le Savages e i Bo Ningen è un modo di affacciarsi a quanto è stato finora descritto: una porta, seppur detemporalizzata o comunque atemporale – dove il tedesco ci viene incontro con il suo esatto Entzeitung – che getta uno sguardo in primis sul movimento dadaista, cogliendone in principio la sua forza istintiva: dove la creatività polivalente [si sviluppa] secondo le leggi della spontaneità, della insensatezza, dell’inconscio e del caso, e qui è Alfred de Paz a instradarci.
E dalle poche parole pronunciate a riguardo di questa bizzarra collaborazione, le Savages portano quell’elemento che ci permette di chiudere il primo cerchio iniziato con le varie considerazioni sul movimento Dada:
Bo Ningen are into surrealism and Dada. We always want to make a surreal space when we perform a show, to make it a special experience. When we go to concerts as an audience and the band hasn’t made a space, it makes us upset.
Esperienza, spazio, pubblico. Tre parole di fondamentale importanza. Ma non finiscono qui gli elementi caratterizzanti di questo Words To The Blind. Parlavamo prima di immediatezza, che ora veniamo ad intendere in due maniere differenti: in primo luogo come prodotto immediato nella ricezione, e in secondo luogo nella creazione (e il fatto che si ponga prima quello che solitamente si considera agente passivo non è casuale). Quanto è qui contenuto, che consiste in una sola “traccia” – dove il termine traccia è inadeguato, dato che è una registrazione priva di pause di un qualcosa che sfocia dai confini musicali – è nato nella forma live, per poi essere messo su disco solo in un secondo momento. Quindi il fulcro è quello della esibizione dal vivo, dell’ascolto, della ricezione immediata. Istantanea però fu anche la concezione dell’idea. Jehnny Beth ci dice infatti: we wrote the piece in two days. And then that was it, we went to perform it.
L’ultimo elemento da essere citato – che poi fu quello che diede il via al progetto – è quello della simultaneous poetry, invenzione del già-citato Tristan Tzara, consistente nella lettura simultanea di una poesia in differenti lingue, utilizzando ritmi contrastanti, tonalità avverse, il tutto contemporaneamente attraverso un vario numero di artisti.
It was a great gig, and we felt we should collaborate together. At the same time, Savages guitarist, Gemma Thompson, was reading a book about Dadaists, about simultaneous poetry that they used to perform at Cabaret Voltaire in Switzerland. […] we started discussing how to proceed – how to take the concept of simultaneous poetry and turn it into sonic simultaneous poetry, but keeping the idea of humanity and the world, and the idea of a solitary human voice versus the chaos of the world.
Quindi opporre al caos organizzato della realtà, un secondo caos umanamente e musicalmente ordinato, almeno in parte. Prima tra l’altro parlavamo di lingue, dove la differenza è necessaria negli artisti che si apprestino alla poesia simultanea; e infatti se le Savages cantano in inglese o – come nei primi minuti – in francese, i Bo Ningen invece si esprimo in giapponese, sistema che diede voce alle loro rivolte acid-punk. Quindi arrivati a questo punto, vediamo come siano compresenti tutti, o buona parte, degli elementi del movimento dadaista, e quindi tutte le forze necessarie alla destrutturazione della Musica.
A questo punto possiamo ben dire che già il fatto di essere stati portati a questo gran numero di considerazioni sia necessariamente un fattore di enorme valore riguardo l’opera che qui ci si presenta, nel solo senso che siamo stati posti di fronte a della difficoltà, dei nodi da sbrigliare: siamo stati messi in gioco noi, e le nostre competenze. Abbiamo quindi tentato di trovare spiegazioni ai metodi e agli intenti di questo Words to the Blind, una volta trovato in lui questo insieme di complessità.
Quello sopra presentato però non è assolutamente l’unico motivo per cui quest’album sia degno di attenzione. Per adesso il discorso è andato avanti parlando principalmente di un solo soggetto di questa collaborazione – e si vuole continuarlo a fare: le Savages. Perché mentre per loro questo esperimento segna un punto che potrebbe essere una svolta a livello sonoro, per i No Bingen è quasi una esperienza di poco conto, un’ennesima tappa in un percorso che già si muoveva in questa direzione.
Quando l’anno scorso uscì Silence Yourself, la band londinese iniziò a far parlare di sé, con grande intensità. Non pochi videro nel loro esordio un dei migliori dischi dell’anno, per motivi tra i più disparati: alcuni vi leggevano un’innovazione, altri invece la giusta ripresa di un’era d’oro della musica passata. Quello che noi – una delle tanti voci del coro – possiamo permetterci di dire, è che Silence Yourself è un ottimo album, ma pieno di limiti: sembra una produzione anni ottanta, senza nemmeno una grande voglia di mischiarsi almeno un po’ alle correnti degli ultimi anni. E ci si domandava dopo un disco così già profondamente sentito, un secondo album come sarebbe potuto essere: il sentito del sentito, forse. Eppure c’erano degli elementi che facevano ben sperare: al di là di canzoni coinvolgenti e rabbiose, come She Will, fu il video di Shut Up a lasciar ben sperare: facciamo riferimento all’intro spoken-rock qui aggiunto. La vena poetica che era rimasta sotterrata da esplosioni punk-rock, diventava soggetto di un momento estatico post-rock. La forma quindi era il problema. Ed era venuto il momento di liberarsene. E questa necessità fu, a livello teorico, notata dallo stesso gruppo; infatti quel video, appena citato, recitava così – tirandone fuori le parti a noi necessarie:
The world used to be silent, now it has too many voices; and the noise is constant distraction. […] We live in an age of many stimulations. […] You want to take part in everything and everything to be a part of you […] Perhaps, having deconstructed everything, we should be thinking about putting everything back together.
L’arrivo della collaborazione con i Bo Ningen è sembrato il momento ideale di dare non più forma alla musica, ma all’intenzione: ci si è liberati della canzone, degli anni ottanta, della formazione; si è deciso invece di rappresentare la caoticità, le too many voices, come precedentemente si diceva, le quali non posso essere soggette a regolarizzazione, alla fatalità dell’ordine. Per questo i trentotto minuti di questo Words to the Blind sembrano non andare da nessuna parte, se non verso il rumore, la caotica sovrapposizione di strati, ritmi contrastanti, e voci in conflitto. Eppure si tratta di saper scavare tra questa materia eccentrica e ricavarne ciò che ci è necessario: piacere. Un’operazione quindi didattica, che se intendiamo nei termini brechtiani della parola, è quella che reca maggior piacere e divertimento tra le varie.
Ci tengo solo a precisare una cosa: dove mi sono permesso di parlare del movimento dadaista, mi si concedano errori e sbagli; forse anche possibili sviste nella definizione degli intenti, degli sviluppi, e dei risultati di tale movimento; o altrove una eccessiva semplificazione.