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7 Ottobre 2014 | Island | tokiohotel.com |
Il presupposto delle “Boy Band” o dei teen-idol è che il bacino di utenza di tali progetti sia in connessione con essi. Nella maggior parte dei casi l’attenzione verrà rivolta ad un pubblico appartenente al proprio range di età. Poi tutti crescono insieme, e ad un certo punto è ovvio che uno dei due piatti della bilancia sfanculerà l’altro. Capita spesso di osservare il “declino” di una Boy Band a causa della difficile coesistenza fra membri; insomma, nessuno è il leader e nessuno lascerà che lo diventi il compagno più vicino.
Poi la classica carriera da solista, i vestiti eleganti, la barba lunga di due settimane e l’illusione che lo sbarbino di un tempo possa diventare il David Bowie di turno. Ovviamente, anche la vecchia guardia di fan è cresciuta, e difficilmente prenderà nuovamente ad esempio quei membri. Ma ce li vedete i vecchi fan (anche voi) di Take That e Backstreet Boys eccitarsi come un tempo per l’uscita di un nuovo disco?. E poi qualsiasi tentativo di rimettere insieme 5ive e East17 morirebbe nell’anticamera del cervello di ogni produttore sano di mente.
Ma esistono eccezioni: ad esempio quelli che diventano Superstar a 15-16 anni e che, rivolgendosi ad un target minorenne analcolico, crescono davvero in loro compagnia con gli stessi ascolti nelle orecchie. Inevitabilmente tutto questo potrebbe generare un cambiamento che vada di pari passo con i gusti dei propri fan.
Probabilmente in questo percorso, ormai troppo dilatato per le accelerazioni sfrenate delle nuove generazioni, più della metà degli utenti manderà a farsi fottere i propri ex-beniamini. Parliamo dei Tokio Hotel, di quei sagaci sedicenni capaci di scalare le classifiche mondiali, e contribuire nel generare sballati fraintendimenti quando si parla di “Emo”. Comparendo nei canali mediatici molto di più di Britney Spears o di Justin Bieber.
Ora che hanno 23-24 anni, finalmente sono riusciti ad ascoltare un po’ di musica da tutto il mondo, a farsi un background; alla buon ora, vien da dire. Non stiamo qui a parlare dei primi due album, i quali fanno parte di qualcosa talmente extra-generazionale che è quasi impossibile da descrivere oggettivamente. I Tokio Hotel risbucano dal nulla perché il mondo li ha buttati nel nulla anche mentre uscivano col secondo album. Mentre i loro collegucci americani fumavano bong di marijuana ad Amsterdam smarcandosi dal mondo Disney (cara Miley quello è stato il giorno nel quale hai detto addio alla tua fanciullezza), o correvano in Ferrari scatenando risse fra paparazzi (ma questo, Justin, non farà di te un bad-boy), i nostri tedeschi, da sempre ligi al ferreo dovere, combinavano al massimo qualche marachella all’interno di qualche pub europeo.
Troppo poco per i mass-media e troppo poco per le vendite. Eppure rieccoli qua con questo Kings of Suburbia, uscito ad ottobre, arrivato in seconda posizione in Germania e in quinta in Italia, senza che ce ne fossimo accorti. Tante cose sono cambiate nei Tokio Hotel: innanzitutto l’immagine, che non è cosa da poco. Bill (quello figo e androgino) è diventato un cesso con un sacco di piercing e barba; Tom, il fratello sfigato che per anni è stato all’ombra del gemello perché più basso e cesso, ora guadagna punti in charme; mentre gli altri due non se li è mai cagati nessuno e la cosa continuerà.
La musica fondamentalmente è cambiata, accantonando quasi tutta la componente “Alternative Rock” in favore di pulsazioni electro adiacenti ai vari White Lies o Empire Of The Sun. Le chitarre elettriche spesso si fondono con i loop e i suoni elettronici del synth: i nostri hanno finalmente scoperto i Daft Punk. Visto il massiccio e quasi fastidioso uso del vocoder. Però brani come “Feed it All” o “Kings of Suburbia” mischiano certo soft rock dalle atmosfere spaziali e glitterate – vi ricordate i The Ark ? Ndr – con coretti e sonorità smaccatamente Eurodisco, e “We found us”, non sfigurerebbe all’Eurovision accanto agli Infernal o a Loreen.
Il fantasma che si vede più spesso passare rimane quello degli Empire of the Sun: perfetto compromesso fra sfarfallamenti vari, onde psichedeliche e vocoder spaziali “Cover in Gold o Never Let you Down“. Non male però. Lo stesso vale per il vincente singolo “Love who Loves you back” (ah, date un’occhiata alla copertina del singolo: nel frattempo sono diventati anche veri maschietti) che pare uscito da “Ice on the Dune“ degli Australiani appena citati.
Insomma, io non credo proprio che questo sia un album consumabile per gente come me e come voi, trentenni imbolsiti dalla vita, ma andrebbe apprezzato il percorso stilistico “non previsto” in seno ad un progetto meramente commerciale.
Ah dimenticavo: la notizia più succosa di questi anni è che Bill Kaulitz ha fatto coming out (http://goo.gl/XP6WuO), quindi nei prossimi concerti tantissime ragazzine bagnate dovranno condividere l’eccitazione e la prima fila con altrettanti ragazzini e, molto probabilmente, saranno scaricate.
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