Ghost Culture – Ghost Culture

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Erol Alkan in persona ha scommesso sul londinese James Greenwood (a.k.a. Ghost Culture), pubblicando i suoi singoli e l’album omonimo attraverso Phantasy Sound. Chi ha conosciuto il ragazzo afferma che è talmente aperto e disponibile da far dimenticare in un attimo quell’aura di mistero che per un po’ ha accompagnato il suo nome.

Greenwood, così come altri, sa mescolare una spiccata attitudine da producer di musica da dancefloor con quella di autore di canzoni con la “c” maiuscola. Queste due componenti, lo ripetiamo, sono presenti nel lavoro di molti, moltissimi, ma raramente le due parti sono rappresentate in modo così equo. Lui fa cinquanta e cinquanta laddove gli altri, volontariamente o meno, si sbilanciano da una parte o dall’altra. Il risultato è un disco con la confezione techno d’ambiente e con la struttura di una raccolta di stupende canzoni pop. Per certi versi potrebbe ricordare Matthew Dear ma, appunto, Dear non possiede la stessa semplicità, intesa come immediatezza, sebbene sposti i sederi della gente con la medesima naturalezza di questo signore qui.

Un discorso simile lo si può fare su una eventuale convergenza tra Ghost Culture e l’anima elettronica di un John Grant. Ma anche qui non ci siamo del tutto perché, sebbene Grant sia uno oggettivamente “bravino” a scriver canzoni, non sembra però possedere l’autonomia e la padronanza delle materie electro e house nella misura che Greenwood ha già dimostrato ampiamente. “Arms” è forse il singolo che ha fatto intuire al pubblico il talento di Ghost Culture e con altrettanta probabilità resta su disco il passaggio che definisce meglio la cifra stilistica del suo progetto. Le linee vocali, sussurrate con la verve di chi è in pieno hangover, non sono altro che il trampolino su cui i sintetizzatori prendono forza ed elasticità prima di far saltare a dovere tutto l’impianto delle canzoni di Ghost Culture. Si prenda “Lucky“, con il vortice creato attorno alla parola che dà il titolo al pezzo. Nei tre quarti d’ora di questo viaggio, Detroit non è affatto lontana e questo è messo nero su bianco fin dall’apertura dell’album, affidata consapevolmente a “Mouth“. Poi, inaspettata, alla fine arriva “The Fog“, una filastrocca che ruota dolcemente su se stessa e ci lascia al punto di partenza, con un ultimo frame nebbioso e, insieme, tanti colori.
[schema type=”review” name=”Ghost Culture – Ghost Culture” author=”Marco Bachini” user_review=”5″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]