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4 marzo 2015 | zetafactory | igiardinidichernobyl.it | ![]() |
CRONACHE DA ZEROLANDIA
Zero mi circonda. Il Numero. Non Renato. Il Simbolo. Tracciato. Come cerchio nel grano. Il significato? Soggetto non identificato. E via cantando: Anno Zero, Numero Zero, Tolleranza Zero, Farina Doppio Zero, “Cella Zero“, come il disco de “I Giardini di Chernobyl“, il loro albo zero, registrato con Giulio “Ragno” Favero – ma se digiti su Google “Cella Zero”, il grosso delle notizie riguarda un’espressione che definisce, in gergo carcerario, la cella dove un detenuto X viene isolato, per essere punito, picchiato, spesso ammazzato. Vedi Poggioreale. Poi, se rovisti bene, scopri che l’abominio non è recente, ma pluridecennale. Io, ad esempio, non lo sapevo Ndr. A che punto ero? Al disco, certo. Tondo come un cerchio. Tondo come il Tempo. Spettro che si morde la coda. Fantasma in Streaming. Di decenni accumulati. Decenni, certo. Numeri seguiti da Zero.
La musica di questo gruppo, che viene dalle Marche, mi ricorda i videoclip che guardavo da bambino, quand’ero contento, ma contento davvero, e vivevo in Via dei Matti, al Numero Zero. Zero come Zeta. Zeta come Zeta Factory. Zeta come Zapping. Schermo Nero. Accendo. Inseguimenti d’auto stile Punto Zero. Isis post Bin-Laden. Zero Dark Thirty. Programmi di cucina. Spengo. La voce di Emanuele Caporaletti mi fa tornare pischelletto. Mi riporta a quei tempi. Un altro cerchio si è chiuso. Tool, Deftones, A Perfect Circle. Nella fattispecie, mi sembra di sentire all’infinito “Change“, cantata da Chino Moreno, in sella ad un Pony Bianco, come in un sogno. Oppure “Passenger“, il brano che Chino registrò con Maynard James Keenan, iscrivendo Tool e Deftones in un cerchio perfetto. Ma lo zero non è un cerchio. Sembra più un ovale. O Il riflesso di uno specchio. Il doppio è un tema ricorrente in questo album. Tieni presente “Jekyll“. Tieni presente “Iago“. Due brani fra i migliori della raccolta. Voci sommerse nel missaggio. E nella rimembranza dei Deftones. Riff di puro metallo che rievocano, alla moviola, un altro “Zero”, quello degli Smashing Pumpkins, e quando il ritornello respira, etereo, come sovente accade in molte canzoni, riecheggia anche un po’ d’Italia, nel segno dei Cosmetic. Un sospetto, questo, che aleggia, rarefatto, nel crossover di “Mentre Lisa Dorme“, nel suo refrain, poco prima che serpeggi nuovamente l’ossessione compulsiva, e chitarristica, di un palmo muto stoppato.
E. Caporaletti, nella sua voce, raccoglie frammenti antiquari degli ultimi 20-25 anni, passando dal registro baritonale più suadente alle vette più acute e tirate, sorvegliato sempre dal Terzo Occhio di Babbo Maynard. Una specie di Monte dei Cocci canoro, dove Cocci qui sta anche per Marco, quello dei Malfunk.
Nella cornice di “Cella Zero”, il brano più pregnante, quello più azzerante, è probabilmente “Homus“, fusione fra Homo ed Humus. Più che una canzone, un’ipotesi su cos’è la vita umana: una fusione momentanea, effimera, fra un soggetto finito e l’infinita stratificazione di enti e non enti che lo attornia. L’unica chance di permanenza, più o meno duratura, è la testimonianza del nostro passaggio, ma sempre e comunque in qualcosa di “altro da noi”, come un oggetto, un ricordo, un figlio, un disco, o anche solo una scritta.
Tutto questo, in un estratto dal testo di “Homus”:
“Sparirai anche se lasci qui il tuo segno
Sparirai anche se lasci qui il tuo seme”
Sulla mia scrivania, da un po’ di tempo a questa parte, giace un dizionario dei numeri. Mi serve per non dimenticare tutti i soldi che ho buttato, comprando libri a malapena sfogliati. Lo apro. Il termine “zero” deriva dall’arabo “zifr”, da cui deriva anche il termine francese “chiffre”, ovvero “cifra”. “Le Chiffre” era anche il nome di un “villain” di Zero-Zero-Sette, nell’ultimo “Casino Royale“. Lo zero può essere tutto o niente. Vuoto e Assenza. Nulla ma anche Nascita. Morte ma anche Madre. Lo Zero ci circonda, Malamadre. E niente ci appartiene sul serio. Era questo che volevano dirci, in realtà, i Bluvertigo di “Zero”?
La flora radioattiva dei Giardini di Chernobyl si ammanta di un ulteriore tassello estetico, visibile sull’home page del sito ufficiale della band: il trio in una posa fotografica marziale e boschiva, memore dei controversi Death in June. Giardini, Chernobyl. Vita, Morte. Anche qui. La sezione ritmica, guidata da Stefano Cascella (basso), e Simone Raggetti (batteria), fa il suo dovere, senza particolari guizzi. In aderenza ad una forma canzone nostalgica, diretta ed energica, basso e chitarra sviluppano intrecci perlopiù elementari, scolastici, eppur temerari, perché atti a sostenere la più compiuta, almeno finora, italianizzazione di un certo rock, già tentata altrove, dai Mistonocivo, dai Blastema. Non si esce vivi dagli anni’80, tantomeno dai ’90, ma forse siamo scampati agli Anni Zero. Lo “Schism” dal bel canto, però, dovrebbe carpire qualcosa in più dagli Scisma di Benvegnù, che grondavano di idee, di colori, di soluzioni. Ai Giardini di Chernobyl non manca certo l’energia. Il sound è potente. L’intenzione e la carica dell’esecuzione convincono. Purtroppo, se da una parte il disco mostra una solidità invidiabile, pur essendo un debutto, dall’altra bisogna ammettere che l’eccessiva ripetitività delle strutture, e delle dinamiche fra strofa e ritornello, rende l’ascolto, per quanto teso e coinvolgente, fin troppo prevedibile.
Detto ciò, “Cella Zero” è un disco che ci rincuora, suonato e sudato, e che compensa la sua scarsa originalità con la forza di una scrittura semplice ma efficace. Ed è solo l’inizio. Chissà, forse la nuova canzone italiana potrebbe ripartire da qui. Da un passato che non le appartiene. Come sempre.
Nell’odierna Biblioteca d’Alessandria, detta anche Wikipedia, si legge che fu Leonardo Fibonacci ad introdurre le nove cifre, più lo zero, latinizzato in “Zephyrus”, nell’emisfero cerebrale europeo. Lo riporto perché un altro Gabbio Cerebrale, quello laterale, o “Lateralus“, narratoci dai Tool, si rifece, nella scansione sillabica delle strofe, proprio alla Sequenza di Fibonacci, nella sua title-track.
Tutto preso dalle mie chiacchiere su Zerolandia, sorrette da fondamenti molto vaghi, per non dire contorti, ho smarrito per strada altri numeri, non meno importanti. Dieci, come le canzoni presenti sul disco, come “la grande madre che tutto abbraccia e che tutto delimita” per i Pitagorici, poiché somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4=10), quattro come gli elementi della materia. Il dieci è anche rappresentabile attraverso un triangolo equilatero, che dalla base al vertice riconduce dal molteplice all’unità.
Tre, come i componenti della band. Tre come il numero della Sintesi Completa. E Tre come la compagnia telefonica che mi tartassa con le sue offerte, e che mi costringe ad interrompere bruscamente la recensione, per mettere fine agli squilli incessanti. Non c’è dubbio. Sono Loro. Sul Caller Id appare un numero che ormai riconosco. Una sequenza infinita di zeri.
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