Attitudine e visual:
Robyn Hitchcock è un personaggio eccentrico e ben lontano dalla sobrietà estetica, come la sua stessa improbabile e bizzarra camicia a pois lascia intendere. Anche se ad onor di cronoca, bisogna ammettere che ben si sposa con la visionaria produzione discografica folk-pop-wave iniziata nel lontano ’76 con i Soft Boys, proseguita con Egyptians (Roger Jackson, Andy Metcalfe, Morris Windsor), e Venus 3 (Peter Buck, Scott McCaughey) ed alternata alle esperienze soliste. Il 62enne londinese esordisce nell’accogliente cornice del FolkClub di Torino, coinvolgendo da subito gli spettatori: due accordi di chitarra, una sistemata al microfono ed inizia ad avventurarsi col suo italiano stentato in un imbarazzante monologo che racconta la sua abbuffata pre-concerto a base di “cozze, gamberetti, pesce spada” ed un’altra serie di sconsideratezze. Mantenendo la stessa vena umoristica, invita a salire sul palco la figura angelica di Emma Swift, che annuncia come: “la mia bella ragazza”. Incantevole e dotata di un timbro vocale seducente e delicato che attenua le stravaganze sceniche dell’ex-Soft Boys, soprattutto quando insieme duettano in Queen Elvis.
Audio:
La percezione uditiva si lascia trasportare dall’avventatezza surrealista che sprigiona l’obliquità del fingerpicking, placcando le fragilità vocali più sofferte e spigolose. Complice una location capace di intensificare il fascino visionario del suo cantautorato, le sonorità acustiche vengono possedute da un’atmosfera intimista, specialmente quando gli sguardi di complicità con la giovane songbird si incrociano sugli accordi di Motion Picture, apportando alla performance gradevoli sfumature di carezzevole dolcezza.
Setlist:
Riadattando alcuni classici all’esigenza acustica, inizia un meraviglioso viaggio tra le pagine del suo voluminoso songbook, ricamando melodie blueseggianti in Only The Stones Remain e This Could Be The Day, irradiando poi un calore esplosivo con Beautiful Girl, Somebody To Break My Heart, Be Still, e mantenendo accesa la fiamma del suo psych-folk con Madonna of the Wasp e Chinese Bones, sino a naufragare sulle sponde malinconiche di Full Moon In My Love, Queen Elvis, Motion Picture, Harry’s Song, prima di chiudere con la beatlesiana Strawberry Fields Forever.
Momento migliore:
Harry’s Song. Una sublime partitura di pianoforte dalla travolgente progressione malinconica che scava nelle oniriche oasi melodiche, regalando i momenti più intensi e di raffinata bellezza della 3° tappa del suo Polka Dot Highway Tour.
Pubblico:
Un colpo d’occhio da convention immobiliaria o pausa pranzo d’ufficio; sembra si conoscano tutti. Trentenni, quarantenni, cinquantenni e sessantenni assistono dalle loro postazioni numerate al travolgente susseguirsi di ballate malinconiche e tonalità allucinate con un’invidiabile senso di adorazione verso la saga hitchcockiana.
Locura:
Non pervenuta.
Conclusioni:
Pur senza brillare, il collaudato mix caleidoscopico di alchimie graffianti ed emotive, riesce sapientemente ad allontanare gli incovenevoli stati di noia dall’eufemistica ritmica ‘a basso consumo energetico’, alternando le stravaganze sceniche alla poetica mistica e deliziando un pubblico che ripaga con assordanti battimani le funamboliche virate del suo genio creativo.