Terminator Genisys di Alan Taylor

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È chiaro che non ha più senso dibattere di sequel, reboot, prequel, remake e derivati, alla ricerca dell’etichetta più opportuna, di fronte a congegni instabili e formalmente cinetici come Terminator Genisys, tanto che il moto dei personaggi e il loro (momentaneo) insediarsi in una dimensione – che sempre ne apre e ne chiude un’altra a sua volta – fanno pensare all’indeterminazione di Heisenberg.

Un prologo nel futuro fa da prequel agli snodi iniziali del primo Terminator (1984), mostrando il controcampo temporale immediatamente precedente all’infiltrazione simultanea di Reese e del T-800 nella Los Angeles del passato. Quindi, per un attimo, il film che stiamo vedendo (Genisys) nemmeno esiste più, perché ciò che abbiamo davanti agli occhi sono le precise immagini di Terminator, con le stesse, esatte inquadrature replicanti (i lampi saettanti, il camion della spazzatura, l’autista che fugge, lo scontro con i punk all’osservatorio), le stesse pose (la “nascita” del T-800, la testa che volge lateralmente), gli stessi movimenti di macchina (il terminator ripreso da dietro che domina la città con lo sguardo).

È un brivido pregevole che dura appena qualche secondo, il tempo di farci venire il sospetto che il regista abbia intenzione di clonare il prototipo al millimetro come fatto da Gus Van Sant con Psycho (1998). Poi, appena creduto di padroneggiare e di (pre)vedere una scena che abbiamo già visto, ecco che quella inaspettatamente cambia e ci coglie impreparati, introducendo un’apparizione che spiazza il filo logico e la continuità temporale tessuta fino a quel momento. Dentro quale film siamo? In quale altro film sbucheremo? Prima, dopo o simultaneamente a che cosa?

Terminator Genisys è una macchina mutaforma imperfetta, razionalmente nostalgica, blandamente (an)affettiva (qualche alleggerimento ironico, il sorriso ingessato di Schwarzenegger, “I wanna be sedated” dei Ramones in cuffia). Perciò infallibile (vedi box office). Che incamera e riattiva squid registrati, “soggettive mentali”, ricordi, dettagli e tracce mnestiche dei predecessori messi a punto da James Cameron. Divenendo presto – troppo presto – sconclusionatamente autocosciente dell’upgrade della tracotante onnipotenza narrativa e produttiva in dotazione – da giustificare con l’esubero e lo spreco, dissipata nell’action più distratto e distraente -, scavalcando ogni messianico deus ex machina (chi spedisce il T-800 vintage a guardia della Sarah Connor bambina negli anni ‘70?) e tralasciando gustosissimi comprimari come il “reduce” J.K. Simmons.

È il coefficiente di iconicità perdurante a venire meno nelle stuolo dei rifacimenti contemporanei, ma forse nel cinema tutto. Dopo Jurassic World, anche Terminator non può che adeguarsi, per non sfigurare al cospetto dei Transformers di Bay che hanno riscritto la robotica filmica. La rilettura di Alan Taylor non conta per gli incubi post-umani che effettivamente realizza scolpendoli a futura memoria in un immaginario sempre più liquido e a rapido deperimento – come fu per le lucide e affilate creature di Cameron, le vuote pupille fissate sul meccanico riflesso innato del dare la morte e/o offrire la salvezza – ma per il campo quantistico di possibilità visive e suggestioni illimitate colte in fieri, mai “terminate” nel serbatoio di direzioni potenziali, dischiuse solo per essere invertite o bypassate di netto (il viaggio abortito nell’apocalisse del 1997). In un’infiltrazione seriale a tappe a (corto)circuito aperto che nega di fatto la linearità del percorso di Kyle Reese – il barbone a cui chiede i vestiti recita meglio di Jai Courtney, a proposito – tracciato sul dito di Sarah Connor (Emilia Clarke con gli stessi occhi guizzanti di Linda Hamilton, ma senza tempra d’acciaio e muscoli reaganiani). Ubriacandosi di soluzioni multiple, incroci temporali, flashback veri o presunti, nuovi rilanci e anacronismi. Con i terminator al posto degli X-Men di Giorni di un futuro passato, per non soccombere (nel presente) all’obsolescenza del franchise – cocciutamente rigettata dall’inossidabile Schwarzy -, rimandare all’infinito il giorno del giudizio e tramandare la resistenza del fiammeggiante dispositivo tecnologico che lo (ri)produce. Sempre «in teoria», come specifica il T-800.

Infatti l’ossatura si affloscia, paradossalmente, nella seconda parte, trascinandosi caracollante tra le scintille di effetti ed esplosioni come il torso metallico di un terminator segato a metà. Ed è proprio avendo impresso in testa l’endoscheletro in stop motion del mago Stan Winston – così minaccioso nella sua rudimentalità, animato all’improvviso alle spalle degli attori a partire da una serie di fumante accozzaglia inerte – che si genera il fastidio per l’ibrido (super)uomo-macchina magnetizzato, brutta copia del già brutto Johnny Depp svaporato in unità cerebrale di Transcendence.

Il nucleo finale non può che installarsi ancora nella fabbrica, “città della macchine” della saga e topos cameroniano della trasformazione (la pelle bruciata del T-800 ridotto a pezzo di ferraglia assassina), del decentramento dispersivo delle identità (le due Sarah Connor nel finale di Terminator 2, frammento qui citato nell’indecisione della nuova eroina di fronte alle copie identiche di Kyle Reese). Primordiale terreno di scontro (l’acciaio fuso simile a ribollenti colate laviche in T2) e sintesi tra l’automazione senziente delle macchine e la progettualità delirante dell’umano, su cui prevale il sacrificio della figura paterna. Taylor assembla motivi e accumula inside jokes senza poter offrire lo spessore metaforico delle opere di Cameron, limitandosi ad immergerci nei tuoni metallici dello score in lega di titanio di Hans Zimmer e nel furore scenografico, non prima di aver provato a replicare la vertigine insostenibile degli inseguimenti al cardiopalma di Cameron.

Il destino non è scritto (troppo bene). Lo script accumula buchi e confonde gli spunti. Le domande insolute restano molte, per tutti, spettatori e personaggi. Schwarzenegger si lancia dall’elicottero in volo assicurando il leitmotiv di sempre, mai rinnegato neanche durante la parentesi politica: «Tornerò» («I’ll be back»). Non abbiamo motivo di dubitarne, nemmeno per un secondo.