Jurassic World di Colin Trevorrow

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Qualcosa è sopravvissuto, degli embrioni narrativi, dell’immaginifico mondo (s)perduto di Jurassic Park, nell’ultima partogenesi dei dinosauri Universal. E qualcosa si è irrimediabilmente estinto. Senza che qualcuno abbia particolari colpe (o forse sì). Semplicemente la magia incantatrice e il DNA di un caposaldo incondizionatamente adorato non possono essere clonati e riportati alla potenza originaria nemmeno con la fecondazione assistita – da Spielberg – dell’archetipo.

Colin Trevorrow (ri)apre il parco strizzando un occhio ai visitatori della prima ora l’altro ai giovani turisti che nel ’93 ancora non erano nati. Portando a compimento il sogno democratico, vagamente populista di John Hammond – le creature visibili da tutti, non solo dai super ricchi – nel presentare in pieno fermento una gigantesca attrazione all inclusive per famiglie. Già preda alla nascita – non si bada a spese, come tramandato al nuovo tycoon indiano Masrani – di viral marketing e merchandising a tappeto, ossessivamente presenti dentro e fuori dal recinto filmico, in un cortocircuito indigesto che soffoca il respiro dell’avventura negli spazi aperti.

Perché i problemi di gestione finanziaria e di sponsorship della InGen sono gli stessi che presiedono alla realizzazione di un blockbuster meticcio come Jurassic World. Obbligato all’invadenza dei capitali delle multinazionali che possono far sorseggiare la bottiglietta di Cola a Chris Pratt come comprarsi i diritti di un improbabile Pepsi-sauro, contando anche uno Starbucks all’accoglienza clienti. L’austera e affettata Claire Dearing, nel districarsi fra pressanti ingerenze esterne riflette la scomoda posizione di Trevorrow, che piazza i due scialbissimi e spaesati ragazzotti sulla giostra – con annessi dialoghi triti sulla solidarietà fraterna – solo perché costretto (per esigenze di target), proprio come la protagonista. In un prodotto che nel setting da resort vacanziero e nella rilucente patina illustrativa da depliant dell’avventura sembra l’estensione visiva di un’area commerciale monstre. E che odora di artefatto guantato e troppa asetticità da laboratorio post-produttivo, più che di fango, melma e giungla pluviale associabili al brivido dei carnosauri come l’Indominus. Maestoso e pantagruelico ma mai inquadrato decentemente, se non nella finale collisione tra grossi calibri, esaltante ma non certo una novità assoluta (il match Spinosauro vs. T-Rex di Jurassic Park III).

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Creature ibride in un plot sintetizzato in provetta, dopo lunga gestazione in cattività di più riscritture. Un film-Beta spurio fino all’iperbole, costantemente ricondotto sulle impronte gargantuesche del prototipo e all’imprinting paterno del suo Alfa – come la squadriglia di Raptor ammaestrati (ossimoro ammissibile?) ai comandi di Owen Grady, variazione per il pubblico young-adult del “Muldoon” di Crichton. Un calco estratto dall’originale, imperniato sull’impossibilità del controllo che condanna la saga all’emergenza perenne e sottende la ragion d’essere dell’intera cosmogonia giurassica. Ossatura semplice per struttura complessa e pericolante che può assistere allo sbriciolamento di muri, corpi, carcasse e reticolati ma non eludere le gabbie narrative (la consueta storyline spielberghiana di riappacificazione familista), sfuggire alla profetica teoria del caos di malcomiana memoria e alla ripetizione congenita dell’errore (il Dna di rospi e/o raganelle, qui fatale innesto per il metamorfismo imprendibile dell’Indominus Rex).

Relative scoperte e sicuri rinvenimenti ad effetto. Jurassic World è una spedizione di paleontologia applicata agli stilemi della serialità. A poco più di vent’anni di distanza, Jurassic Park è (già) assunto come un fossile della preistoria cinematografica, perfettamente conservato, che rimpolpa stratificazioni dell’immaginario e citazioni sedimentate, dissotterrate qua e là con nostalgico affetto (il dottor Wu, Mr. Dna, il vecchio centro visitatori, le Jeep, il visore notturno di Tim, la corsa dei Galliminus, lo score di John Williams dal meravigliato al malinconico). Proiettate in ologrammi o mimando la schermatura dell’ambra opalescente che ne restituisce immutata l’antica, ruggente magniloquenza (basti vedere lo special guest che viene liberato dal recinto 9). O altrove perfino rinnegate come imbarazzante rimosso da seppellire (la t-shirt vintage che disturba Claire Dearing).

Ma il punto sta proprio qui. Nel (dover) ritornare necessariamente alle origini, a ripercorrere i cancelli d’accesso a un’Isla Nublar da cui non c’è modo di uscire (vivi). Mauro Resmini ha definito Jurassic Park un «déjà vu mai visto prima», nel suo trasferire miti e mitologie arcaiche – come fece “Lo Squalo” nel ’75 – alle porte di un’era del cinema mainstream dai contorni inimmaginabili allora agli albori. Jurassic World assomma invece tutto e troppo di già visto, e si sbatte – invano – nello sforzo di farcelo (ri)vedere come fosse la prima volta.

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Se Jurassic Park era chiamato a un salto nel buio temerario – con incoscienza fanciullesca e mai timorosa – verso un futuro ancora da scrivere (con le innovazioni epocali nella CGI e nel sonoro DTS), a superarsi ad ogni inquadratura, sorprendendo e spaventando anzitutto se stesso, profondendo in ogni scena un preciso senso di trasmutazione evolutiva delle specie e della tecnica-cinema, non senza ironie («I dinosauri mangiano l’uomo, la donna eredita la Terra»), al contrario Jurassic World – battendo un terreno non più fertile, arato da un ventennio di proliferazione digitale, dove tutto è assurto a norma sbadigliante, come nella logica bulimica, eternamente insoddisfatta del parco che riflette la saturazione visiva dello spettatore – non può che ripiegare all’indietro, nella cava dei reperti rianimati a suo tempo da Spielberg.

Segnando il passo, se non per l’involuzione, per una «de-evoluzione», usando la formula di Claire Dearing. Ovvero il punto di non ritorno, oltre il quale non c’è nulla da sperimentare. E per trovare una svolta creativa, alla InGen come agli Universal Studios, non resta che (s)combinare e riallacciare i filamenti più disparati, gli accostamenti morfologici più impensati, per produrre qualcosa d’indefinito e non riconducibile alle categorie esistenti. Un mostro, non più un animale (com’era invece nell’approccio di Spielberg), che faccia sobbalzare i ragazzini in poltrona e scorrazzi negli incubi degli adulti. Lo spera Masrani e se lo augura Trevorrow. È la scommessa affidata all’Indominus, che lascia il proscenio all’istinto insopprimibile del solo Rex che non può essere domato né dominato. Siamo ancora, di nuovo, a Jurassic Park. Se ci fosse il compianto Richard Attenborough, ci darebbe il suo più orgoglioso benvenuto.