Chiacchierando sulle metodologie di scelta e sulla composizione dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, si rischia di sforare nell’ecclesiastico. Del resto, la scelta del miglior film è di per sé una decisione per cui invocare (giustamente) lo spirito santo, un tipetto che in genere mantiene sempre un occhio (populista) di riguardo per le tematiche sociali, riservandosi il compito di trollare milioni di ascoltatori al fotofinish, ma anche dopo: una cosa questa di cui speriamo Sorrentino abbia preso nota per la seconda stagione di The Young Pope.
Bisogna però partire da un assunto. L’Accademy vuole soprattutto premiare i film che la gente ha visto. La gente. Capito? Quindi esca immediatamente dalla stanza chi non ha ancora capito che questa è una festa bolscevica negli intenti e collaborazionista nell’essenza: un colpo al cerchio ed uno alla botte. Sia chiaro dunque che i film di “rottura” che volete tanto non ci saranno e non verranno mai premiati. Quindi è inutile che vi lamentiate. Film che la gente ha visto, chiaro? Dai, che poi l’audience va in sbattimento.
Prima che avvenga tutto ciò, c’è però da smaltire la solita esclataion di masturbazioni vicendevoli (attore/intervistatore) con eiaculazione diretta sul red carpet. Una su tutte vede Charlize Theron in versione fashion blogger sponsorizzare i propri orecchini facendo saltare sulla sedia le alte sfere di Juwelo Tv.
Noi (in chiaro) all’appuntamento ci presentiamo con la formazione delle grandi occasioni, da sinistra: Leotta, Matano, Canova, Negri, dirige il signor Francesco Castelnuovo. I primi due se ne andranno ben presto – lui a cercare un rimedio al meteorismo e lei un buon antivirus –, lasciando il povero Canova in balia di servizi come: “I migliori balletti del cinema“, nel tentativo di giustificare un ipotetico jackpot di La La Land che non avverrà.
«Ma sai cosa? Sei bellissima»
(in loop, a chiunque, anche a Dwayne Johnson ed il suo papillon)
C’è Justin Timberlake che stronzeggia prima, dopo, ma soprattutto durante la diretta con chiunque gli passi a tiro: così fenomenale nel seminare quel mood da “tutto è perfetto se prendi la vita col sorriso“, quasi gospel nel tentativo di far battere le mani a tempo all’intero parterre – riportandoci con la mente ai bei tempi in cui Brian Austin Green interpretava David Silver in Beverly Hills 90210.
Jimmy Kimmel (presenta lui), che è chiaramente di un altro pianeta, riporta fin da subito tutti con i piedi per terra mediante una lenta ma inesorabile invettiva nei confronti delle politiche proposte dal neo presidente Donald Trump: il vero protagonista della serata. Fino alla gag del doppio tweet in diretta, riproposto sul maxischermo. Nient’altro che una serie di saluti affettuosi al presidente – tanto per capire se nel frattempo, visto l’andazzo, il n.1 della casa bianca avesse mobilitato l’artiglieria; ma più probabilmente stava dormendo.
E proprio mentre Nicole Kidman si coordina per battere le mani a tempo, ecco emergere la prima statuetta per il miglior attore non protagonista in favore di Mahershala Ali di “Moonlight“: che la soffia a Michael Shannon di “Animali Notturni” – spacciatore buono vs malato di cancro terminale in berserk, touché. Il film vincerà anche l’oscar come miglior sceneggiatura non originale (Barry Jenkins e Tarell McCraney). Niente male Barry.
Della categoria Trucco e acconciatura non sembra fregare poi molto a nessuno vista la velocità con la quale viene sbrigata la pratica. Però vincono i nostri Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini (con Christopher Nelson) per Sucide Squad, rendendoci euforici – provate voi a rendere ancora più fighi di quello che già sono Margot Robbie e Jared Leto, poi ci direte.
Il miglior documentario non poteva non andare a Ezra Edelman per O.J.: Made in America, vista la centralità delle tematiche in oggetto per il pubblico americano: la razza e la celebrità – qui qualche domanda dovrebbero farsela. Neanche il tempo di gustarsi il momento “Malcom X” dell’ottima Erza, che viene scalzata da quel mattacchione di Dwayne Johnson; pronto a millantare un’esibizione canora sulle note di un pezzo tratto da Oceania. Lo fermerà una delegazione olimpionica, responsabile della coreografia alle spalle di Aul’i Cravalho.
. @LinManuel raps the intro to Auli’i Cravalho’s ‘How Far I’ll Go’ from @DisneyMoana. #Oscars pic.twitter.com/9jSnXvwRdI
— Faridoon Shahryar (@iFaridoon) 27 febbraio 2017
L’oscar al miglior sonoro va a Kevin O’Connell, Andy Wright, Robert Mackenzie e Peter Grace (“La Battaglia di Hacksaw Ridge“): che hanno ringraziato in pubblico le proprie madri per avergli fatto le orecchie.
«Questo è davvero un premio collettivo!»
Qui sopra Sylvain Bellemare dopo aver vinto l’oscar per il miglior montaggio sonoro (The Arrival), mentre reprime un gesto dell’ombrello grande come una casa nei confronti dei suoi colleghi.
Viola Davis vince il premio come miglior attrice non protagonista in Barriere (di Denzel Washington). L’adattamento cinematografico dell’opera teatrale “Fences” di August Wilson – vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia – è sicuramente una delle cose da non perdere di questo Febbraio, vista la sua uscita nelle sale nostrane. Vi sapremo dire.
Poi arriva anche “il contentino agli arabi prima di bombardarli” (satira). Perché se hai le palle di far vincere come miglior film straniero “Il Cliente” di Asghar Farhadi, poi non ti puoi lamentare se questo non si presenta e ti manda una missiva di denuncia sulle nuove disposizioni in merito all’immigrazione volute dal governo Trump. Asghar non lo compri. L’Academy dimostra coraggio.
Un clima da guerra fredda che non viene stemperato dalla seguente interpretazione acustica (tutt’altro che tantrica) di ‘The Empty Chair’ da parte di Sting. Ma che peggiora con l’incipit di quella che sarà una delle più brutte gag mai viste agli oscar: quella del pullman degli ignari. Ma di questo ne parliamo dopo.
Nel frattempo l’oscar per il miglior cortometraggio d’animazione va a “Piper” di Alan Barillaro, di cui potete saggiarne il coraggio qui sotto:
Altro giro e altra invettiva contro il muro messicano promesso da Trump, poco prima che “Zootropolis” vinca l’oscar come miglior film d’animazione – questo si, uno dei grandi manifesti in favore dell’uguaglianza e contro l’America che il presidente vorrebbe. Una tensione controllata, democratica.
Finalmente arriva il primo oscar per “La La Land” – miglior scenografia (Reynolds-Wasco e David Wasco) –, che si porterà anche via quello come miglior attrice (Emma Stone), miglior regia (Damien Chazelle), miglior colonna sonora (Justin Hurwitz), e miglior fotografia (Linus Sandgren). Non come da previsioni, ma comunque niente male, se pensiamo che un film come Manchester by the Sea vince “solamente” due oscar: miglior attore protagonista (Casey Affleck) e Miglior sceneggiatura originale (Kenneth Lonergan).
Il momento carità arriva all’improvviso (con il pullman di cui sopra), grazie l’ingresso di uno stuolo di esseri umani falsamente ignari e pronti ad accettare ogni sorta di feticcio dalle star. La Aniston, sempre in prima fila quando si tratta di far del bene, regala loro un bel paio d’occhiali mentre il tutto comincia ad assomigliare ad una processione liturgica in onore dell’idolo pagano. A turno Kimmel – che cinico qual è, gongola acidamente riuscendo a malapena nel contenere il sarcasmo (forse il momento più bello della sua vita) – li esorta a toccare il frutto proibito direttamente dalla mano dei vincitori: una cosa che sa tanto di mistress quanto di Celebrity Death Match.
Il premio per gli effetti speciali se lo portano via Robert Legato, Adam Valdez, Andrew R. Jones e Dan Lemmon (Il Libero Della Giungla) in barba a Star Wars; e Michel J. Fox entra in scena su una Delorean (avete presente Ritorno Al Futuro?) per premiare l’oscar al miglior montaggio. Vincerà John Gilbert per “La Battaglia di Hacksaw Ridge” – ringraziando pubblicamente il suo regista (Mel Gibson) il cui film vincerà due statuette.
Un’edizione che vede sugli scudi le tematiche sociali e che con l’oscar al miglior cortometraggio documentario a “White Helmets” di Orlando von Einsiedel e Joanna Natasegara, rincara una dose che di questi tempi suona come la panacea universale (speriamo). L’oscar al miglior cortometraggio va a Sing di Kristóf Deák.
Chiude l’oscar ai migliori costumi (Colleen Atwood) per Animali fantastici e dove trovarli. Di cui alla premiazione mancava l’esponente di spicco.