Nei film di spionaggio, lo scienziato svanito nel nulla, spontaneamente o complice un rapimento, recluso ad assemblare l’arma nucleare di turno, in attesa di pronto salvataggio, è la storia più vecchia del mondo. Se ci vanno di mezzo intrighi internazionali e insospettabili nazisti camuffati, è ancora più vecchia. Questo per dire che la trama arcinota di Operazione U.N.C.L.E. e le trame in incognito dei suoi agenti potrebbero anche non essere degne di nota. Visto che è lo stesso Guy Ritchie a rendere palese che la sceneggiatura gli interessa poco o nulla, stavolta. Proprio lui, l’amato e vituperato videoclipparo di caratteri e dialoghi cesellati, piazzati come cazzotti e sparacchianti all’aria come rivoltelle fuori giri nel caos dell’inquadratura. Allibratore di lebowskiani tappeti narrativi srotolati a ripetizione in una sfilata di bizzarra putredine criminale, prima che l’ipercinetico Sherlock riportasse un po’ d’ordine alle origini della corrotta urbanizzazione british.
Il fatto è che Ritchie ci mostra la scarsa cura per un plot mai così piatto nel modo più contorto possibile. Non sconfessando, ma assimilando per filo e per segno, nel modo più schematico e stereotipato possibile, il canovaccio hollywoodiano dello spy movie d’avventura. Tanto che nell’infiltrato americano coadiuvato dalla ragazza europea a smascherare la rispettabilità dello zio nazista di lei, potrebbe perfino riconoscersi un ricordo del Prigioniero di Amsterdam di Hitchcock (con la spia in vece del giornalista, uno zio al posto del padre della donna), opus fra i più convenzionali della classicità spionistica. Del resto, Ritchie si è sempre divertito a congegnare McGuffin come il quadro di RocknRolla, qui fiutandone uno tarantinesco nell’orologio paterno scampato alla deportazione che fa svoltare inaspettatamente l’indagine.
Ma insomma, perché tanto affanno, per poi abbandonare la pista? Quella di Ritchie non è disaffezione, ma voluta disattenzione verso un intreccio che, lasciato all’evidenza più risaputa, permette di spostare il fulcro (auto)riflessivo sul termometro stilistico dell’autore. Qui colto in un’impasse, in bilico tra la consueta, febbricitante estetica oltranzista e un inedito raffreddamento in gesti e posture ingessate. La metafora perfetta sta forse nel corpo speciale del russo Illya, chirurgica macchina da combattimento costretta al blocco, a trattenersi, “a non far vedere” quello di cui è capace per il bene della missione. Quando si sfoga, lo fa fuoricampo o in ellissi, a spese dei rampolli del Belpaese. Con autocontrollo ferreo sconosciuto persino al pugile Sherlock di Downey Jr., che già limitava (contrac)colpi e montanti da vignetta del parossismo visivo di Ritchie al minimo indispensabile. Quasi a voler scoprire – al ralenty e in flashforward – punti deboli e nervi scoperti in cui un consumato gesto cinematografico possa ancora assestarsi con efficacia. E in cui un personaggio stilizzato possa insediarsi, spalmandosi mimetizzato sulla scena fino a fagocitarla (il trucco finale di Sherlock Holmes – Gioco di ombre).
In questo senso Operazione U.N.C.L.E. è un film di attori che assorbono lo schermo e calamitano sex appeal. Ritchie cede i feticci storici alla concorrenza – Jason Statham stipato nel demenziale gender di Spy -, si separa dal fedele Watson – Jude Law, anche lui in Spy – e recluta corpi nuovi giocando la carta dell’inversione e dell’ironia. L’uomo d’acciaio e di muscoli mitologici (Immortals) Henry Cavill è addolcito nel fascino dandy di un umorista bondiano riflessivo e dalla mano lesta. Mentre Armie Hammer smette i panni mélo del fusto pulito e affidabile (J.Edgar, Biancaneve) per entrare nel physique du rôle infrangibile del supereroe. Nella mischia emerge l’astuto Hugh Grant, lo scapestrato dongiovanni dagli occhi blu impossibile da immaginare nel sottobosco ruvido di un The Snatch o di un Lock & Stock (anche se il vizio del bicchiere è rimasto, come si apprende dai titoli di coda).
Un cinema di schegge impazzite e feccia outsider, di cani sciolti e da rapina, di teste calde e grugni marziali che qui si sublimano in figurini eleganti e levigati, ligi alla patria e al proprio ruolo iconico. Lasciandosi carta bianca solo nella scelta dei costumi di scena, rigorosamente firmati, non necessariamente en pendant. Non sarà action-comedy d’«alta sartoria maschile» alla Kingsman, il film di Ritchie, avverte subito il boss della CIA – Jared Harris, già eminenza grigia per Moriarty -, ma non è certo meno raffinato nei modi. Al massimo più composto nello stile. Un risparmio di mezzi per cui Illya può tramortire una guardia con un solo schiaffo paralizzante, al bacio.
In effetti, è proprio l’immobilità e l’inazione pigra – aldilà del tesissimo prologo bondiano e dell’inseguimento finale tutto zoom e montaggio frenetico alla Fast & Furious – a guidare spesso l’azione dei personaggi. Napoleon Solo resta fermo a guardare, sornionamente distaccato. Non spara al rivale che lo bracca («Non credo sia la cosa più giusta da fare»).Non ha più voglia di sguazzare in mezzo all’ennesima sequenza d’inseguimento in motoscafo – l’ha già fatto Indie nell’ultima crociata, o più di recente Daniel Craig in Quantum of Solace. Se la gusta – e noi con lui – seduto al drive-in, sorseggiando un Chianti. Spettatore sbadigliante che gioca al mixer tra le stazioni radio vintage, trovando il giusto pezzo romantico (Chi vuole questa musica stasera? di Peppino Gagliardi) per sommergere l’azione dietro un acquario muto e coprire il suo soffice atterraggio in scena risolutivo. Sembra l’“azione di diversivo in primo piano” di cui parla Bazin (per Wyler) usata da Guy Ritchie in senso comico e paradossale, con la concitazione drammatica ovattata sullo sfondo. Com’è silenziata dietro il vetro isolante pure l’involontaria esecuzione sulla sedia di tortura, con Napoleon dispiaciuto solo per la costosissima giacca carbonizzata.
Ce la si gode e ce la si prende comoda in Operazione U.N.C.L.E. perché non c’è nulla di cui preoccuparsi sul serio. Anche scardinare la cortina di ferro è poco più di una rivalità maschile sui gadget scelti per segare una rete metallica. La risonanza della tensione politica trapela appena da cimici vetuste che registrano gemiti imbarazzanti o i colpi bassi di una guerra dei sessi fra le stanze d’albergo romane. Spionaggio, champagne, femmes fatale montate su un carillon di sparatorie, glamour, vespini e dolce vita. Ancora cinque minuti. Please.