Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
4 settembre 2015 | Cargo Records | pilofficial.com | ![]() |
Bando alle ciance. Andiamo dritti al punto: se amate incondizionatamente la voce di John Lydon, noto ai più come “Johnny Rotten”, il leggendario frontman dei Sex Pistols, qui c’è pane per i vostri denti (marci). Se proprio non potete farne a meno, se arrivereste al punto di vendere i vostri reni al mercato nero pur di spararvi nelle orecchie un nuovo disco di Babbo Punk, allora fermatevi, lasciate i reni dove stanno, perché quest’album è la vostra festa. È il vostro giorno di Natale in anticipo. Viceversa, se siete fra quelli che hanno amato i P.I.L, ovvero la seconda incarnazione musicale di Lydon, per la loro capacità di trascendere il punk, e guadagnarsi di fatto un “atomo d’onore” nel firmamento post-punk, allora fate finta che non sia successo nulla.
Tornate ai cimeli di un tempo: al plumbeo posacenere dell’atonale “Metal Box“; ai bouquet dissonanti di “Flowers of Romance“; all’insolito piglio melodico, insolito per gli standard di Lydon, di brani come “Rise“. Insomma, se avete amato i P.I.L per il loro spirito iconoclasta e per la loro natura sfuggente e imprevedibile, state alla larga da “What the world needs now“. O quantomeno moderate l’eventuale entusiasmo. Una cosa però va detta: il disco in sé non è nulla di abominevole. E in ambito “grandi ritorni” si è sentito di peggio (“Go away white” dei Bauhaus o “What happens next” dei Gang of Four, ad esempio). Ma quello che manca, a differenza di quanto sostiene il titolo, è proprio la sensazione che di questo disco ci fosse bisogno. Intendiamoci, siamo difronte ad un discreto e tutto sommato godibile mix di chitarre distorte, cadenze dub, declamazioni nichilistiche, accenni d’elettronica, e sfuriate punk vecchia scuola. E se a livello strumentale la band sembra ripassare il Sussidiario Wave ’79-’84, ma senza molta convinzione, soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica, John Lydon invece si dimostra all’altezza della situazione, regalandoci una performance che odora di stantio ma alla fine neanche troppo. Menzione speciale per il suo peculiare “crooning” su “Big Blue Sky“, forse il brano più sperimentale del lotto, diviso fra pulsazioni dub e urla disumane che lambiscono la melodia; e per la convincente, ma era lecito aspettarselo, veemenza di “I’m not satisfied“.
Il guaio è che in fin dei conti, esclusa qualche eccezione, in queste undici tracce non c’è un soffio dell’ispirazione di un tempo. Solo una band che porta a casa un lavoro discreto, ripiegando sui più comodi clichet del proprio repertorio, aiutata dal carisma di un frontman leggendario che malgrado i decenni accumulati riesce ancora a non sfigurare del tutto. Eppure, il messaggio contenuto nei versi di Lydon potrebbe gettare ben altra luce sull’intera opera. E allora questo disco dalla copertina orrenda, suonato col pilota automatico, in grado di scontentare sia gli amanti del post-punk più estremo, sia le nuove generazioni cosiddette “indie”, potrebbe essere l’ennesimo atto provocatorio, l’ennesima presa per i fondelli. Perché del resto, come urla Johnny nella conclusiva “Shoom” :”What the world needs now is another fuck off!“