At The Drive-In – Relationship of Command

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Avviso a tutti i lettori:

Questa è una recensione “parziale” e “soggettiva”. Il giudizio qui espresso, e già la parola giudizio non ci azzecca niente, è frutto di “opinioni” personali, a loro volta influenzate da “sentimenti” altrettanto personali. In pratica, sarà un track by track brutale, condito da aneddoti e ricordi. Grazie per l’attenzione.

Relationship of Command — Ovvero: come imparai a fregarmene del vicinato e ad alzare il  volume a stecca.

C’è questo fenomeno che chiamo “Panino Condominiale”. Succede quando abiti in un condominio e c’hai al piano di sopra un tizio che martella tutto il giorno, manco fosse un serial killer, e sotto invece c’hai una famiglia coi ragazzini che giocano sempre, e che quando giocano sembra che facciano le prove per lo spettacolo teatrale di “Jumanji”. E tu stai lì, fra bimbitudine & martello. Sei il ripieno. Insomma, per anni sono stato il ripieno di questo panino. E non sapevo cosa fare per contrastare le forze oscure che mi avversavano da sotto e da sopra. Per fortuna c’hanno pensato gli At The Drive-In a fornirmi un rimedio:

“Martella! Martella pure! Nel frattempo alzo il volume di “Cosmonaut” al massimo”

Oppure:

“Giocate! Giocate! Ma con “Catacombs” che vi piove dal soffitto!”

Inutile dire che “Relationship of Command”, oltre ad essere il capolavoro che è, ha avuto tanti altri meriti. E anche la parola “capolavoro” qui suona strana. Già perché a volte si intende per capolavoro, appunto, un’opera che precorre i tempi, che fa da apripista, da manifesto teorico e pratico insuperato. In questo caso del post-hardcore. E invece “ROC”, putacaso senza Kappa, non è per niente l’apripista del suddetto genere. Ma neanche nel sogno più perverso di chi è stato in coma fino agli albori del duemila. “ROC” non è il Tony Manero che si presenta ad inizio serata e mostra a tutti com’è che si balla. “ROC” è l’imbucato molesto che quando tutti se ne stanno andando s’impadronisce della consolle, mischia la musica come cavolo vuole lui, e fa sbroccare la folla a tal punto da mandare il locale in frantumi. Tutto questo poco prima della chiusura.

L’esperto dirà: “E i Minutemen, allora? E i Fugazi? E i Drive like Jehu? E i Nation of Ulysses? Guarda che gli At The Drive-In hanno scoperto l’acqua calda!”. E infatti l’abbiamo appena detto. Però, se è vero che da una parte le succitate band hanno tutte influenzato, e di brutto, i 5 texani di El Paso, è anche vero che in pratica, insomma, è anche vero che: cazzo, basta ascoltare il disco.

Comincia con “Arc Arsenal”. Ed è subito Sabba. Un brano che smonta e ricuce “Brendan#1” e “Sieve-Fisted Find” dei Fugazi, mettendo al microfono quel diavolo di un frontman che risponde al nome di Cedric Bixler-Zavala. Uno Zack De La Rocha più schizzato, meno messianico, e con un vero talento per le liriche incomprensibili. O meglio, visionarie barra neologistiche. E fra parentesi, qui la chitarra la suona lui, seguendo  i dettami d’accordatura di Lee Ranaldo dei Sonic Youth.

“Pattern Against User” affianca agli intrecci dissonanti tipici del post-punk un riff e un ritornello epici da far invidia agli U2 di “War“, grazie anche ai botta e risposta vocali fra Cedric e Jim Ward, ‘na specie di Ian MacKaye versione grunge. L’energia sprigionata dai due è uno dei punti chiave del disco.

“One Armed Scissor”, cavallo di battaglia della band, incuriosisce per la struttura insolita, quantomeno per l’heavy rotation dell’allora MTV. Sostanzialmente si tratta di bozzetti e sequenze slegate fra loro e intervallate dal riff principale. E aggiungerei epocale. A tal proposito, come non ricordare il videoclip del brano in questione? Quello dove Cedric, dimenandosi su più palchi in montaggio alternato, a un tratto esibisce una T-Shirt dei Bon Jovi. E non è una simpatica trovata da apericena hipster. A Cedric garba sul serio il rock “ammeregano” di una volta. Il gruppo che lo folgorò quand’era piccino? I Kiss, proprio loro.

Terminato il singolone, c’è una coda strumentale che anticipa “Sleepwalk Capsules”, la quarta traccia. Se possibile, ancora più tosta di “One Armed Scissor”, da cui in sostanza sgraffigna il riff, lo abbrevia, e lo ripete col medesimo attacco e la medesima intenzione. Forse c’è un grado in meno nell’accordo, ma non so, dovrei controllare sui siti per tablature. Ad ogni modo la traccia, strutturalmente, è fra le più normali del disco. Normale alla maniera degli At The Drive-In, ovvio.

Arrivati ad “Invalid Litter Dept.”, secondo singolo estratto, un piano ci getta in una intro dal sapore psichedelico, bruscamente interrotta da una strofa che pare innestare lo spoken-word di Cedric sull’avvio della fugaziana “Returning the Screw”. O se volete, su un qualsiasi momento di calma apparente della Dischord Records. La canzone parla delle Maquiladoras, dello sfruttamento nelle fabbriche, e dei femminicidi ai confini di Ciudad Juarez in Messico. E lo fa col cuore, senza imbastire teatrini retorici. Nel videoclip, vediamo i cinque ragazzi sui luoghi del misfatto: Tony, Paul, Jim, e poi loro, certo, Cedric & Omar: dioscuri afro in total jeans. Il primo impegnato a reinventare il cantato punk, il secondo alle prese da sempre con cromatismi chitarristici continui, maniacali. Anche qui, il ritornello è di quelli che fanno centro al primo ascolto. Un’altra costante dell’album, che a questo punto potremmo definire, fra molte virgolette, “post-hardcore in salsa pop”.

La seconda parte del disco, esattamente come la prima, si divide fra un: “ti rompo il culo e basta” e un “ti faccio sedere un minuto poi ti rompo il culo di nuovo”. A testimonianza di ciò, una “Mannequin Republic” che farebbe pogare anche un attaccapanni, e che prima del finale pennella un rapido special in simil-ballad barra Led Zeppelin, che forse era già un preludio ai futuri The Mars Volta. A seguire, la gloriosa “Enfilade”, un piatto succulento che ha fra i suoi ingredienti la batteria di Tony Hajjar, che sculaccia a dovere il tempo composto, il richiamo di una diamonica, e una voce effettata che ci ricorda un’altra grande e misconosciuta band assai cara ad Omar e Cedric: I Brainiac. Poi, come se non bastasse, c’è anche Iggy Pop che all’inizio di “Enfilade” fa la voce da rapitore che chiede un riscatto(e certo che i The Stooges, insieme agli MC5, devono averlo rapito un pezzo d’anima agli ATDI, specie a Cedric). Ma visto che siamo incontentabili, l’Iguana torna per biascicare “manuscript replica” nella successiva “Rolodex Propaganda”, che ribadisce, come anche altrove nell’album, il feticismo per i Synth.

E se “Quarantined” riporta il gruppo su territori vagamente psichedelici, “Cosmonaut” riesce a far volare il post-hardcore, in termini di frenesia, ancora più in alto dei Nation of Ulysses — non a caso il caposaldo della band di Ian Svenonius, ovvero “13-point program to destroy America”. è fra i preferiti di Jim Ward.

Il disco si concluderebbe con la lenta “Non-Zero Possibility” — questa davvero antesignana della “Televators” presente sul primo full-lenght marsvoltiano —, ma in realtà, nelle successive ristampe, sono state aggiunte “Extracurricular” e “Catacombs”. Tutt’altro che lente. E i miei vicini lo sanno bene.

L’ultima, soprattutto, merita una menzione speciale, poiché Cedric in sede live era solito cantarci sopra “That joke isn’t funny anymore” dei The Smiths, di cui peraltro gli ATDI hanno anche coverizzato “This night has opened my eyes“.
Detto ciò, finisce qui la nostra incursione nel capolavoro di questi cinque ragazzi, dalle origini diverse, cresciuti al confine fra Stati Uniti e Messico. Chi avrebbe mai detto, ascoltando il pauperistico “Acrobatic Tenement”, il loro esordio sulla lunga distanza, che al terzo appello si sarebbe arrivati a tanto? Di sicuro i Beastie Boys, che li vollero in scuderia nella loro etichetta Grand Royal.

Il bello, poi, è che tutt’oggi Omar detesta il modo in cui il disco è stato mixato. Per la serie: beato chi ci capisce qualcosa. Il bello, poi, è che adesso gli ATDI sono tornati insieme, e non come nel tour celebrativo del 2012, o almeno non solo, ma con l’intento di comporre nuova musica. A sedici anni dallo scioglimento. E ne sono successe di cose, nel frattempo. Non so se può interessarvi, ma ad esempio i miei vicini hanno traslocato. E quei rumori non li sento più da un pezzo. A volte mi mancano.