Prus dall’Oltrefiaba – Vostok

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A pensarci bene, se così si può dire, la psiche umana è un po’ una discarica. Nel senso che dentro ci finisce di tutto. Ed è anche vero che è da lì che tutto comincia. Dagli incubi in attesa di smaltimento. Dalle mosche che ronzano, e che poi si sedimentano, in blocco compatto, nel sostrato più profondo di quello che adesso, per amor di brevità, chiameremo “io”. Senza contare che poi, dulcis in fundo, c’è anche la discarica del corpo, e qui non scendiamo in dettagli perché finora ci siamo dati un certo tono. In definitiva, se si parla di uomo, si parla di una doppia discarica. E la spunta solo chi riesce a riciclarsi meglio. Avete dubbi in proposito? Provate a chiedere a Prus dall’Oltrefiaba.

Ci piace Prus. Ci piace perché non vuole piacere a tutti i costi. E anzi, usa le sue melodie più riuscite, spesso, come specchietti per povere allodole (noi ascoltatori). Ma la lusinga ha vita breve, e presto ce ne accorgiamo. Allestisce tranelli, e noi ci finiamo dentro. Proprio come nella discarica(nelle discariche) di cui sopra. Il suo secondo disco, dopo “Antartide” del 2011, è forse indefinibile. È forse troppo cerebrale. È forse troppo ambizioso, per non dire spocchioso. Ma è solo un’impressione. C’è invece molta ironia, malgrado tutto. E la cosa va bene. Va benissimo. Perché in mezzo ai clangori dell’avanguardia industrial (ormai retroguardia) qui va in scena un teatrino di maschere horror-pop che vanno dagli psicodrammi di Sopor Aeternus & The Ensemble of Shadows ai Bluvertigo più dark e più elettronici di “Zero” (quant’era bello e confuso, a ripensarci ora, quel dannato disco).

Il titolo dell’opera in questione è “Vostok”. E dunque vengono subito evocati scenari artici. E dunque “La Cosa” di Carpenter, tornata ultimamente di moda grazie a “The Hateful Eight” di Tarantino. Viene in mente la metafisica, questa sconosciuta. Viene in mente l’oscuro legame che si cela fra le forze della natura e quella che noi crediamo essere un’entità superiore, che però sfugge, che però non si lascia identificare. E che alla fine lascia inerti, lascia impotenti, gli strumenti dell’uomo razionale, dell’uomo tecnocratico, dell’uomo di scienza se vogliamo. Di nuovo, come ne “La Cosa” di Carpenter.

L’opera, nel suo complesso, e una volta tanto il termine è usato col dovuto criterio, si articola in otto prove di eclettismo d’autore. Niente è lasciato al caso, eppure tutto sembra sul punto di crollare da un momento all’altro. La voce di Prus a tratti riscalda, seduce, a tratti invece svetta su registri di raro stridore (artefatto, artificiale, artistico), servendoci su una lastra d’acciaio della ditta Einsturzende Neubaten il comunicato stampa di un vecchio spettacolo, con protagonisti l’Uomo, La Macchina, e il Nulla.

Due brani, più di tutti, ci hanno colpito: “Apocalittica” e “Il corpo elettrico”. Forse perché gli unici cantati interamente in italiano. Forse perché alla fine questo ci rassicura, e anche se fosse non dobbiamo vergognarcene. O forse semplicemente perché sono quelli che convincono di più a livello melodico, pur essendo tutto fuorché dei brani melodici in senso stretto (a proposito, esistono ancora?).

“La Cosa” di Prus, per concludere, è un film che va visto rigorosamente in cuffia, dentro le nostre menti, ambientato in una base artica sperduta, che somiglia tanto a una discarica di rifiuti tossici, all’interno della quale una squadra di voci interiori, tutte diverse, tutte interpretate dallo stesso attore, cercano di capire chi sia il mostro e chi l’abbia creato. Nel frattempo, ci viene addosso una golden shower di idee, che si trasformano, di volta in volta, come le creature di Rob Bottin. La confusione è tanta. Nessun cerchio si chiude davvero. Ma il salto sulla sedia è assicurato. E anche l’amore per la musica. In quantità Industrial(e).