Bob Mould – Patch the sky

Acquista: Voto: (da 1 a 5)

Proviamo a fare una cosa. Proviamo per una volta a recensire un disco di Bob Mould senza scrivere mai le parole Husker Du. Oops, troppo tardi. Questo incipit cialtrone serve solo a sottolineare, come se ce ne fosse bisogno, che purtroppo qualsiasi disco, e qualsiasi brano, venga scritto da Stratocaster Bob vive di una luce riflessa, e di paragoni vigliacchi con un passato ingombrante, quello con la sua storica band. Un passato a dir poco ingombrante. Un passato XXL. Ma molto, molto aderente. Quasi fino a soffocare.

Eppure in questo caso, finalmente, il passato sembra aver perso qualche chilo, già. Perché “Patch the sky” è molto probabilmente il più riuscito fra gli album solisti che abbiano ospitato finora le schitarrate punk, il timbro vocale, e il songwriting malinconico di Bob Mould, la cui voce, ribadiamolo, è di quelle uniche, ma uniche nel senso di uniche, non uniche nel senso di “è uguale ad altri mille ma lui mi sta più simpatico”. Sul serio, stiamo parlando di materiale altrove irreperibile. Roba che se fai domanda all’Ufficio Somiglianze dell’odierna scena rock mondiale ti rispondono con un “le faremo sapere” lungo tutta una vita, morte compresa ovviamente.

È un piacere ritrovare le solite sequenze di accordi maggiori, le solite armonizzazioni di basso, e le solite melodie. È un piacere in sostanza ritrovare gli antichi stratagemmi, ravvivati però da un’ispirazione che a tratti sembra soffiare sulle pagine più gloriose dei decenni trascorsi, scacciando via la polvere. E così accade che “Voices in my head” ti riporta indietro ai fasti con la effe maiuscola. Ok, magari non quelli di “Zen Arcade”, o dei momenti più hardcore degli Husker Du, ma perlomeno degli episodi più ariosi di “Candy Apple Grey” e “Warehouse: songs and stories”. E poi accade anche un’altra cosa, ascoltando il resto del disco: ti ricordi, nel caso te ne fossi dimenticato, che la canzone più fica mai scritta da Dave Grohl, trattasi di “Everlong”, è infondo tutta farina del sacco di Bob. E poi, come se non bastasse, accade un’altra cosa ancora, ovvero che tutto il discorso fatto fino adesso, dopo l’ultimo secondo dell’ultima traccia, se ne va un po’ in malora. Solo un po’, non del tutto.

Sarà che ogni tanto c’è qualche riff dozzinale e qualche passaggio a vuoto (“Daddy’s favorite”, “Hands Are Tied”), ma poi ci rifletti e ti accorgi che sono intoppi di poco conto nel corso di una narrazione che invece fila liscia. Ho appena detto che fila liscia? Eccome se lo fa. Ma alla fine non conquista. Qui sta il punto. E l’infatuazione dura appena il tempo di una manciata di canzoni belle, ma non bellissime ( “The end of things”, “Pray for rain” e “Monument” su tutte). E così anche il ritorno di fiamma, dacché era lì lì per divampare, si tramuta in un piano cottura punk dove sbattere la pentola dell’apposito brodino.
Però, ad onor del vero, c’è da dire che “Black Confetti” è uno dei migliori numeri in solitaria del nostro. Davvero fra i migliori di sempre. Un pezzo che ha quasi il respiro, quasi lo spirito, di una “How soon is now?”, ma senza il famoso tremolo di Johnny Marr. Peccato che al termine della giostra ti viene solo voglia di tornare a sentire “Zen Arcade”,  e non di tornare a sentire “anche Zen Arcade”.

Per chiudere, “Patch the sky” è un disco che suscita reazioni contrastanti, come se fosse la colonna sonora college-rock di un filmino girato all’ospizio. Ma sappiamo bene che Bob è ancora lontano dalla pensione, figuriamoci dall’esilio. E dunque, prima che diventi a tutti gli effetti un esodato del punk, cogliamo la palla al balzo per dire che questo album ha quantomeno riacceso delle luci che erano andate in black-out da tempo. Facciamo da trent’anni?