Abbiamo avuto il piacere di intervistare Luca Re, leader e fondatore dei The Sick Rose, band di culto del panorama garage, come anche del panorama power-pop. L’abbiamo incontrato poco prima che si esibisse al Trenta Formiche, in occasione dell’unica data romana del tour che celebra i trent’anni di “Faces”, lo storico esordio discografico, recentemente ristampato in vinile. Di sicuro è stata una conversazione lunga, interessante, feconda, nella quale il nostro interlocutore, senza concedersi alcun tono di superiorità, ci ha dato una vera e propria lezione di cultura rock, e non solo.
Partiamo con una domanda davvero originale: come mai avete scelto, per la vostra band, il nome The Sick Rose?
The Sick Rose è il titolo di una poesia di William Blake. Diciamo che la scelta è caduta su questo nome perché Blake, insieme ad altri grandi poeti, fu ispiratore dei The Doors di Jim Morrison. Sai, le famose “doors of perception”. All’epoca, quando cominciammo a suonare, eravamo molto influenzati da quel gruppo.
E infatti, ascoltando “Faces”, il vostro primo album, si intuisce lo spettro di Ray Manzarek, e dell’organo iniziale di “Light my fire”, che aleggia sui brani.
Sì, sicuramente. Penso che Il nostro tastierista di allora sarebbe d’accordo.
Avete esordito come gruppo garage-revival. Poi col tempo il vostro sound si è arricchito di ulteriori sfumature, sposando altri generi, come ad esempio il power-pop. Qual è il segreto del vostro stile?
Quando abbiamo iniziato, e parliamo di 33 anni fa, di certo avevamo come riferimento quello che allora veniva chiamato garage revival, o neo-psichedelia, però rispetto ad altri gruppi sulla stessa onda, che avevano come fonte d’ispirazione le compilation della serie “Pebbles”, o “Back from the grave”, noi eravamo cinque elementi con gusti musicali anche lontani dal garage. Non a caso è stato scelto “Faces” come titolo del primo album. L’intenzione infatti era quella di rappresentare tutte le sfaccettature della musica anni ’60. Prendi Diego, il nostro chitarrista. Lui era appassionato di Buffalo Springfield e Neil Young, quindi era più sul country, addirittura con venature folk. Rinaldo, il tastierista, era di certo influenzato dai The Doors, ma anche da tutto il progressive inglese e italiano. Il nostro batterista (in questo caso si riferisce a Dante Garimanno, ndr), che entrò nella band a quasi 40 anni, si era già fatto le ossa in vari gruppi della scena beat italiana. Maurizio, il bassista, si era formato invece studiando la scena di Detroit, quindi in particolar modo gli Mc5. Tutte queste influenze sono poi convogliate in un suono che forse, giudicato a posteriori, è tutto sommato originale. Poi col secondo disco, e con l’uscita di Rinaldo, ci siamo orientati molto di più sull’asse Mc5-The Stooges, ma anche Flamin’ Groovies, e in generale su un sound più chitarristico. Finché non arriviamo agli ultimi album, che sono in larga parte power-pop, anche se poi già su “Shaking Street” e su “Floating”, che è il nostro terzo disco, facevamo cover power-pop come “Let me out” dei The Knack. A mio modo di vedere c’è un’evoluzione coerente nel nostro sound, nel nostro stile. Ecco forse il segreto.
Adesso, una domanda un po’ più specifica: per un’estetica musicale come la vostra a che tipo di strumentazione siete ricorsi nell’arco del tempo?
Sicuramente il primissimo periodo è marchiato a fuoco dal Farfisa e dall’amplificatore Vox. Poi a partire dal secondo disco, con la fuoriuscita delle tastiere, e con le chitarre più in risalto, siamo passati al Marshall. Oggi disponiamo di una strumentazione piuttosto classica: chitarre Fender Telecaster, che sono molto versatili, e amplificatori Fender.
Vi sentite più analogici o digitali?
Analogici, senza dubbio. Anche se gli ultimi dischi, dobbiamo confessarlo, sono stati registrati in digitale, perché lavorare in analogico oggi costa molto di più. Sono dischi, infatti, che sarebbero costati quasi il doppio se li avessimo registrati su bobina. Gli ultimi due, a tal proposito (“Blastin’ Out” del 2005 e “No Need for Speed” del 2011, ndr), li abbiamo realizzati col produttore australiano Dom Mariani, che inizialmente ci aveva chiesto di trovare uno studio a Torino che lavorasse in analogico. Ma il budget non ce l’ha concesso.
Quanto tempo avete impiegato a registrare un disco come “Faces”?
“Faces” (1986, ndr) è forse il disco per il quale abbiamo impiegato più tempo. Iniziammo a Maggio e finimmo ad Ottobre, con delle pause nel mezzo ovviamente. Ma gli ultimi, per forza di cose, visto che Dom veniva dall’Australia e poteva restare al massimo tre settimane, li abbiamo registrati in quel frangente. Poi il missaggio, una volta ultimate le registrazioni, lo ha curato lui in Australia.
Abbiamo già detto che avete aggiunto molte sfumature al vostro sound nel corso del tempo. Ci sono delle altre sfumature che vorreste aggiungere, magari nel prossimo disco?
Per il prossimo disco abbiamo già praticamente la bozza di tutti i pezzi. E stiamo valutando la scelta di un produttore diverso proprio perché vorremmo continuare a muoverci in ambito power-pop, ma con sfumature forse addirittura barocche, e con arrangiamenti un po’ più complessi. Non parliamo di prog, ma di una cosa alla Jellyfish, che è anch’esso un gruppo di matrice power-pop, che però ha dalla sua arrangiamenti vocali e strumentali che spaziano dai Beach Boys fino a territori orchestrali. Ecco, non voglio dire che il prossimo disco sarà orchestrale, ma vogliamo trovare un produttore che ci aiuti a complicare un tantino il nostro disegno, partendo sempre da una base rock ‘n roll, ma con un tocco più moderno e al contempo barocco.
C’è un brano degli Afterhours, dall’atmosfera garage ma decisamente incline al noise, che s’intitola “Non si esce vivi dagli anni ’80”. E voi invece ce l’avete fatta. Come ci siete riusciti?
(Risata). Di certo gli anni ’80 ci hanno portato a una sorta di saturazione, e lo dico perché in quel periodo abbiamo suonato moltissimo in tutta Italia e in Europa. Infatti nel ’92 ero rimasto l’unico della formazione originale. Pian piano la band aveva perso i pezzi, proprio perché i ritmi di lavoro erano molto incalzanti. Quindi noi, come tante altre band, siamo arrivati ad un punto di rottura. Nel ’92 quindi ci siamo sciolti e abbiamo vissuto un divorzio abbastanza lungo. Sì, ci sono state un paio di reunion nel 1998 e nel 2000. Però abbiamo ricominciato a lavorare seriamente come band solo dal 2002. Insomma, ci siamo presi i nostri bei dieci anni di pausa. E quindi nel 2002 io e Diego Mese, che abbiamo fondato il gruppo, siamo tornati a suonare assieme. Sono tornati anche personaggi come Giorgio Cappellaro, che aveva collaborato con noi negli anni ’90, o Valter Bruno, che suonava insieme a me nei 99th Floor. Anche il nostro attuale batterista (Alberto Fratucelli, ndr) suonava con me in altri progetti. Tutti amici che si sono riuniti dopo una decina d’anni. E forse, forti delle esperienze maturate in questa lunga pausa, abbiamo sviluppato un’attitudine diversa nei confronti della musica e dei The Sick Rose. Molto probabilmente è questo che ci ha concesso di andare avanti fino ad oggi. Se stiamo a vedere, infatti, questa formazione, che sta in piedi dal 2002, fra tutte quelle che abbiano avuto è stata comunque la più longeva. Le precedenti non sono mai durate più di tre o quattro anni.
Nella domanda di prima ho citato gli Afterhours anche per un altro motivo. Mi piacerebbe sapere infatti cosa ne pensi della scena italiana, così in generale.
La scena degli anni ’80, quella con cui siamo cresciuti, l’ho amata molto. All’epoca c’era spazio per i gruppi rock che cantavano in inglese. Poi negli anni ’90 le cose son cambiate e chiunque volesse fare musica, per raggiungere un contratto discografico, doveva cantare in italiano. Di quel periodo, su tutti, mi piacciono i The Birdmen of Alkatraz da Pisa e i Not Moving. Sono i gruppi con cui abbiamo collaborato in maniera più stretta.
E venendo invece ad oggi?
Venendo ad oggi, sicuramente ci sono dei gruppi interessanti. Sempre restando nell’ambito del cantato anglofono, apprezzo molto i The Winstons. Penso che il loro disco sia grandioso. Te lo dico perché negli anni i miei gusti sono leggermente mutati e il prog-rock di Canterbury, e penso soprattutto a gruppi come i Caravan, è diventato un punto di riferimento per me. Detto ciò, l’opera prima dei The Winstons è stata una bellissima sorpresa. Sono riusciti a mescolare tante influenze diverse. Una delle cose migliori uscite quest’anno, in assoluto.
La vostra musica, al di là dei mutamenti stilistici, ha sempre espresso una certa gioia di vivere. Cosa pensi invece di quell’altra corrente, ben rappresentata da gruppi dell’etichetta Fuzz Club come i Singapore Sling o i Sonic Jesus, che tende invece verso un garage più dark, più malato, per non dire depressivo?
Devo dire che noi non abbiamo mai avuto questa matrice, in nessuna fase della nostra carriera. Rispetto ad altri gruppi faro come i Gravedigger Five, o gli stessi Fuzztones, noi ci siamo sempre orientati su sonorità più vicine, ad esempio, ai The Chesterfield Kings, che mettevano insieme di tutto, dal pop dei The Monkees al folk-rock dei The Byrds. Ci è sempre piaciuto attingere da fonti diverse, fondendole in un sound che spero la gente riconoscerà come non puro revivalismo, ma come appunto qualcosa di personale.
A proposito del cosiddetto “revivalismo”, si ha sempre più l’impressione di vivere in una sorta di dopo-storia in cui ognuno si dedica al proprio revival. Tu cosa ne pensi: è meglio essere fuori dal tempo, o cercare di essere al passo col tempo (domanda alla Marzullo)?
Nel rock, forse, al giorno d’oggi, è meglio essere fuori dal tempo. Attualmente, quello che mi interessa di più in un gruppo rock, ancora più del sound, è la capacità di scrivere canzoni. Ascolto tantissima musica, di tanti generi diversi, ma più del suono quello che apprezzo è la capacità di scrittura.
Tanti scimmiottano il sound, ma alla fine non sanno comporre.
Esatto. Negli anni infatti quella che abbiamo cercato di affinare è stata proprio la qualità delle composizioni.
E come funziona, solitamente, il processo compositivo dei The Sick Rose?
Direi che siamo un gruppo piuttosto democratico. Difficilmente qualcuno di noi entra in studio con un pezzo già pronto e finito. Di solito si parte da un riff di chitarra, o da un’idea melodica, e poi insieme si costruisce il pezzo. Io normalmente scrivo i testi, ma li scrivo una volta che la musica è stata composta. È sempre stato così. Anche in passato i The Sick Rose componevano prevalentemente in studio. Adesso ovviamente ci sono dei mezzi tecnologici che ci consentono di registrare più velocemente, di modificare i pezzi, e di avere delle basi su cui poter lavorare. Diciamo che per noi è stata molto importante la collaborazione con Dom Mariani. Già negli anni ’80 con i suoi The Stems era per noi una specie di modello. Vederlo all’opera in studio, in fase di arrangiamento, ci ha insegnato alcuni trucchi del mestiere. Ed è forse grazie a lui se oggi la melodia ha un ruolo più importante nei nostri brani. Però, per quanto riguarda le modalità di composizione, tendiamo ad agire nello stesso modo di sempre.
Due cose adesso: la canzone che ami di più del vostro repertorio, e quella che forse, ripensandoci, ti fa dire: “questa era meglio se non la facevamo”.
Difficile. La canzone migliore è sempre quella che devi ancora scrivere, perciò non posso dirti un titolo esatto. Ma visto che stiamo portando in tour “Faces”, che ha compiuto trent’anni, mi sento di premiare, considerata anche l’accoglienza durante i concerti, “Nothing to say”, che ancora oggi riesce a scatenare davvero il pubblico. Per quanto riguarda invece il pezzo che non avrei voluto fare, ce ne sono diversi su “Floating”, che reputo essere il nostro disco meno riuscito. Un titolo preciso non so dirtelo, ma tutto quell’album, se potessimo cancellarlo dalla nostra discografia, ecco, non sarebbe male.
Vorrei agganciarmi alla vostra lunga esperienza internazionale, soprattutto come live band, per chiederti questo: come viene trattato un artista all’estero rispetto all’Italia? Quali sono le differenze?
Guarda, siamo appena reduci da una trasferta estera. La settimana scorsa abbiamo suonato in Francia e in Spagna. Considera poi che in Italia abbiamo suonato veramente dappertutto. Ci mancheranno tre, forse quattro regioni. Paradossalmente non abbiamo mai suonato in Valle d’Aosta e in Liguria (la band è piemontese, ndr). Ci siamo sempre trovati bene, però c’è anche da dire che qui, in Italia, è lasciato tutto alla buona volontà dei singoli. Non esiste un vero e proprio circuito rock. Quindi a volte ti trovi a suonare in situazioni un po’, come si può dire, rocambolesche, dove c’è tanta buona volontà, poi però l’impianto non è all’altezza, il fonico non sa amplificare i suoni, et cetera, et cetera. All’estero, invece, abbiamo visto che bene o male questi circuiti rock esistono, a partire dalla Germania, che abbiamo battuto in lungo e in largo negli anni ’80, e tutto il Nord Europa, ma devo dire che anche la Francia e la Spagna si difendono sotto questo punto di vista. A differenza dell’Italia, lì c’è sempre stata una grande continuità. Noi lo vediamo perché oggi, in questo paese, il pubblico è invecchiato con noi. In Spagna ad esempio, la scorsa settimana, abbiamo suonato in un grande festival garage, e c’era un pubblico stagionato, ma anche ragazzi di 20 e 25 anni, che si appassionano al genere.
A proposito dei giovani, vorrei chiederti di illustrarci rapidamente un piccolo manuale, un prontuario di estetica anni ’60, per il neofita che sa ancora poco ma vorrebbe imparare.
Ti dico i titoli di alcuni dischi, e già dalla copertina si capisce tutto: il primo è “Psychedelic Lollipop” dei Blues Magoos, che secondo me ancora oggi rappresenta l’apice di un certo garage rock che si fonde con la psichedelia. Loro sono partiti dal rhythm ‘n blues, trasformandosi poi in un gruppo garage, ma avevano già degli accenti psichedelici, che per me hanno anticipato le sonorità dei The Doors, e anche dal punto di vista estetico avevano un’immagine perfetta. Poi, per rimanere negli Stati Uniti, citerei due dischi dei The Shadows of Knight. Vanno bene sia “Gloria”, sia “Back Door Men”. Davvero, non fa differenza. Sicuramente poi, per quanto riguarda l’abbigliamento, i The Music Machine di Sean Bonniwell, che hanno ispirato centinaia, se non migliaia, di garage bands con la loro musica, e col loro look tutto in nero: guanti, gilet in pelle, pantaloni, e dolcevita. Poi tanti altri, ovvio, ma per cominciare credo che sia sufficiente.
Citando il titolo di un’altra canzone, in questo caso “What’s my scene?” degli Hoodoo Gurus, ti chiedo un’ultima volta: in Italia una scena esiste oppure no?
Come ho già detto prima non c’è, non si è sviluppata. Se pensiamo ad esempio alla scena australiana, vediamo che lì c’è una continuità che si è mantenuta di decennio in decennio. Quel suono è entrato nel loro Dna. Qui in Italia, posso solo dirti che ci sono alcuni gruppi che apprezzo molto. Per rimanere in tema power-pop, che è il suono che più ci interessa oggi, ci sono i Radio Days di Milano, anche se adesso sono molto più beatlesiani. E poi ci sono i Cirrone di Palermo, che hanno fatto a mio parere un disco bellissimo. Un disco bellissimo che però non ha considerato nessuno.
La prassi esige che un gruppo garage nasca in un garage. È stato così anche per voi?
Assolutamente, l’abbiamo rispettata per filo e per segno.
Parlando ancora dei vostri esordi, vorrei chiederti se c’è stato un momento in cui vi siete detti: “Ecco, ci siamo. Questo è quello che faremo nella vita”.
Onestamente, siamo sempre rimasti molto coi piedi per terra. Quando abbiamo iniziato avevamo vent’anni. Abbiamo avuto la fortuna di fare la cosa giusta al momento giusto. Il contratto discografico con la Electric Eye è arrivato pochi mesi dopo la formazione della band. Quindi disco, tappe in tutta Italia, la possibilità di fare tanta esperienza dal vivo. E allora, per degli studenti universitari come eravamo noi, anche i soldi che giravano non erano mica pochi.
Studenti universitari, hai detto. E cosa studiavate?
Io studiavo filosofia e storia. Diego studiava lettere …
Allora è Diego l’appassionato di Blake …
Beh, in realtà Blake è più una mia passione. Un ricordo del liceo.
Prima parlavamo del futuro della band: abbiamo detto che sarà power-pop. Cos’è che ami tanto di questo genere?
Sì, il prossimo disco sarà ancora power-pop. In questo genere vedo una sorta di ritorno alle radici. I primi dischi che ho comprato nel ’79, l’anno in cui praticamente ho iniziato ad essere collezionista, sono stati il live “At Budokan” dei Cheap Trick, e il primo Lp dei The Knack. Quello è il suono che mi ha forgiato, negli anni dell’adolescenza. Poi, sai, il power-pop è per certi versi un genere obliquo. Nel senso che può essere tutto o niente. Ci sono stati tanti gruppi americani dell’epoca, definiti punk, che invece a posteriori sono stati definiti power-pop.
Ultima domanda: cos’è che ti manca di più di quegli anni, a cavallo fra i ’70 e gli ’80?
Sicuramente sono consapevole di aver vissuto un periodo, dal punto di vista musicale, molto eccitante. Ho vissuto in diretta l’uscita di un disco come “London Calling” dei The Clash, o “Fear of Music” dei Talking Heads. Allora andavo con la paghetta settimanale in un negozio di dischi d’importazione e vedevo esposti gli ultimi capolavori che erano usciti. Oggi come oggi, questo mi manca. Un disco che riesca a stupirmi è difficile trovarlo. Quelli che ho citato prima, fra i più recenti, mi piacciono, ma lo stupore è un’altra cosa. All’epoca era tutto una novità, tutto una scoperta. Ecco, quel senso di stupore è la cosa che mi manca di più. E può darsi che anche oggi un sedicenne provi stupore nell’ascoltare gruppi che magari non fanno cose rivoluzionarie, ma che per lui sono nuove. Ad ogni modo, credo di aver vissuto l’ultima grande rivoluzione del rock. Era un’emozione che sentivo dentro. Un’emozione che invece non ho provato con la stagione del grunge, negli anni ’90, che era estremamente pompata a livello giornalistico, pur non avendo inventato nulla, quando invece noi venivamo tacciati di revivalismo. Per questo consiglio a tutti di andare a recuperare i Miracle Workers, un gruppo garage che secondo me ha anticipato il grunge, e che purtroppo non è sopravvissuto agli anni ’90.