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20 maggio 2016 | rough trade | panthaduprince.com |
Se “Black Noise” – album del 2010 di Pantha du Prince – teorizzava che prima di una catastrofe si formi un suono impercettibile all’orecchio umano, e lo si apprenda attraverso tonalità opache e tiepide: “The Triad” è una mutazione luminosa, la fioritura del rumore stesso e l’emotività esplicita di Pantha du Prince del 2016.
Questo nuovo capitolo di filosofia musicale è interpretato da una vera e propria triade di musicisti, Hendrik Weber (Pantha du Prince) si avvale infatti della collaborazione di Scott Mou (Jane, Queens) e del batterista Norvegese Bendik Hovik Kjeldsberg – già coproduttore di “Elements of Light”, EP del 2013 a firma Pantha du Prince & the Bell Laboratory – specializzato in strumenti a percussione quali campane, xilofoni e marimba.
L’estetica radicata ai mondi dell’house e della techno di matrice Tedesca permane su tutte le 10 tracce dell’album, ma “The Triad” ha una struttura sorretta da metodi umani, nuovi mezzi non digitalizzati di interazione in cerca di un punto d’incontro e di disturbo del suono elettronico. Il tempo è assorbito dagli onnipresenti tintinnii di campane, pendoli e carillon di Bendik Hovik Kjeldsberg e una positiva luminosità fa da padrona in ogni brano, così come cita uno dei titoli guida “Lichterschmaus” – letteralmente “Luci della festa”. L’introduttivo “The Winter Hymn” mette a fuoco un ulteriore cardine strutturale di questo album che si identifica nelle ricorrenti ispirazioni corali dai testi incomprensibili, quasi borderline ma contestualizzate come elementi ritmici primari. Assaporiamo anche il senso del movimento sulle note di “In an Open Space” e “Chasing Vapour Trails”, qualche abrasione in stile Gold Panda su “Lions love” poi tutto si sbriciola piacevolmente sulle riflessioni di “Wallflower for Pale Saints”.
“The Triad” gode di un dinamismo martellante e cinematico, immagini semplici dalle innumerevoli prospettive e un invito limpidissimo a perdersi in un ciclone sonoro.