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6 maggio 2016 | alka record label |
Virgo come vergine. Virgo che è un termine latino. Virgo che appartiene a una lingua morta. E infondo si tratta proprio di questo: di andare a scovare, a disseppellire, la natura più nascosta. La vergine sottoterra, in poche parole. E lo si fa a colpi di rock. E anche di stoner, in caso non bastasse.
Questa band venuta dal Veneto, qui alla seconda prova sulla lunga distanza, ci porta a fare un giro sulle montagne rocciose. Una sfacchinata di soli 35 minuti, per toccare la vetta e poi riscendere a valle. Lungo il tragitto, incontriamo canzoni che non danno tregua, che quasi ci inseguono e ci costringono a correre, finendo spesso fra le grinfie di chitarre distorte ma tirate a lucido, di ritmi che attaccano e staccano, e di urla gutturali. Lì dove l’aria sa più di metallo, dove osano le aquile, e dove osano i maschi alfa dell’amplificazione. Dove osano i Virgo, ecco.
Può suonare alquanto strano che una band realizzi un disco eponimo al secondo appello, e non invece al debutto. Ma al di là di certe considerazioni marginali, non vi sono altre stranezze da riscontrare in questo album per amanti della musica pesa, dove tutto è al proprio posto: una voce bassa e aggressiva che non disdegna la melodia, e che veste un ruolo di primo piano nel missaggio generale. Un comparto strumenti che aggredisce senza sosta, con polso e solidità, giocando con parsimonia, e con sapiente dosaggio, la carta di alcuni virtuosismi. Un cantato in italiano sufficientemente criptico, ma non troppo, quanto basta per tradurre in lingua madre un certo mood, una certa inclinazione simbolista, che riecheggi gli psicodrammi dei Tool, ma con una cavernosità del timbro ben più pronunciata rispetto al contegno solenne, talvolta messianico, dell’enigmatico Maynard James Keenan.
Dodici canzoni ben strutturate, dalla durata non eccessiva, in cui la band gestisce a dovere stacchi, ripartenze, rallentamenti, e accelerazioni. Arrangiamenti di media fattura, con riff granitici, bassi fedeli alla linea, accordi esibiti con sprezzo di ogni avanguardismo arty, e cambi di tempo con fraseggi progressive quando il gioco si fa un po’ ripetitivo. Perché lo è, malgrado tutto, un po’ ripetitivo. Forse troppo. Ed è questa infondo l’unica colpa imputabile ai Virgo, insieme a una totale assenza di ironia (presente invece nei Tool, ma non certo richiesta dal genere), senza nulla togliere al mestiere, alla bravura dietro i fornelli del rock, al “saper suonare”, che è tutta merce rara. Più di quanto si possa credere.
Resta il desiderio di ascoltare il passo successivo, e chissà che il mestiere non sposi quella quota di stravaganza in più, per ora latitante, o per meglio dire latente. Lampeggiano, nel mucchio, il ricordo dei vecchi Malfunk, che ogni tanto serpeggia, un avvio vocale che metricamente sa tanto di Godano e dei Marlene Kuntz (“E’ uno di quei giorni”), e un singolo apripista che ben rappresenta l’album (“Danza di corteggiamento”). Questo, al momento, sono i Virgo. Questa, al momento, è la nostra vergine delle rocce.