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28 ottobre 2016 | heavenly | thebandtoy.com | ![]() |
È apparso di recente un articolo su Pitchfork in merito ai 50 migliori album shoegaze di “sempre”. Da lì si è mosso un po’ di dibattito sui social, vuoi perché la cosa delle classifiche, in fondo, ci piace, vuoi perché ci piace criticare Pitchfork. Naturalmente, in classifica hanno prevalso i soliti nomi di quel ristretto arco temporale che sappiamo. Ma, come detto, sono stati più interessanti i commenti. Non tanto nel discutere su chi fosse meglio tra My Bloody Valentine e Slowdive ma nel dibattito su chi avesse davvero i titoli per fregiarsi dell’etichetta shoegaze e chi no. Che poi è anche un discorso su quella labile linea di confine tra dream pop e shoegaze.
E i Toy del terzo disco sono shoegaze? Probabilmente solo un po’, forse marginalmente. Chissà, magari sarebbero stati inclusi nel lotto con meno forzatura ai tempi dell’esordio (2012). La loro anima ipnotica, motorik e appunto shoegaze ha sempre avuto come contrappeso (anche in Join The Dots del 2014) un emisoma di natura psichedelica e polverosa. E quest’ultimo aspetto, nella personale declinazione che ne ha dato la band di Brighton (lontana dai Temples come dalla scena cilena), non è che abbia sempre giovato al proprio suono. L’apporto psych raramente ha dispensato alla musica dei Toy qualche cucchiaio di dinamismo e di colore in più. Anzi, l’ha adagiata sulle tinte plumbee che la band ha sempre avuto già di default.
Clear Shot, il nuovo lavoro, sembra in parte delimitare quegli aloni lisergici. E lo fa, contemporaneamente, uscendo fuori anche dai binari regolari e “tedeschi” fin qui battuti a testa bassa e a velocità di marcia costante. In Clear Shot non manca, infatti, una freschezza compositiva che esalta le differenze e fa sfumare un po’ le assonanze. E così, in brani come “I’m Still Believing” e “Dream Orchestrator” i Toy si presentano in una veste meno legata alle traiettorie consuete. L’opener e title track è già un buon biglietto da visita per la maniera in cui stacca da una partenza di profilo basso ad un decollo melodico più imponente.
Non tutto l’album tiene, questo va osservato. Ma a a scanso di equivoci, ricordiamo che anche i Toy più squadrati e nerovestiti sanno comunque quello che fanno (la conclusiva “Cinema“). E un domani l’eventuale assenza di Clear Shot dalle classifiche “di genere” non sarà necessariamente un cattivo segnale. Per loro, soprattutto.




