Nella primavera del 1994 anche i neofiti di quello che fino ad allora era considerato il principale collante giovanile (il Rock) – oggi si fa in altro modo –, passarono forse il peggior quarto d’ora della loro vita culturale. Kurt si spara in faccia, ed anche io qualche settimana dopo mi ritrovo a scrivere un tema sulla faccenda: che non capirà nessuno – vorrei rileggerlo oggi, avevo 14 anni. Se colpì così duro un piccolo neo-fan italiano, figuratevi cosa potesse aver causato nelle persone vicine. Gente come Michael Stipe – padrino a Frances Bean Cobain, la figlia oggi 24enne di Kurt e Courtney –, che nel momento più importante della sua carriera – due anni prima era uscito “Automatic For The People“, quindi ci siamo capiti – si vede portar via il biondo amico. Lui la prende male. Ma reagisce. Si rapa a zero e butta fuori il disco necessario in quel momento, in barba a chi si aspettava il sequel del fortunato predecessore.
Anche se il Grunge viveva il proprio zenit, il nostro non effettuerà mai una vera e propria svolta verso le camicie di flanella – come, dal mio punto di vista, è stato detto e scritto erroneamente –, piuttosto elaborerà il momento come snodo cruciale della propria esistenza. Forse non ve lo ricordate, ma già dal 1992 cominciarono a girare voci contrastanti sullo stato di salute di Michael. Si parlava di HIV, ma si parlava anche di omosessualità: alla prima risponderà «Hey, sono magro, sono sempre stato magro», mentre per la seconda ci penserà la copertina del 1995 di Out – in cui si definì «Artista Queer». In realtà dei gusti sessuali del frontman non fregava una mazza a nessuno. Non volevamo rimanere nuovamente orfani.
Dunque entrarono in studio alla ricerca di qualcosa di forte, consci di minare volutamente (secondo me solo in parte) l’estetica R.E.M in favore di un suono che potesse funzionare anche davanti alle grandi platee. Non fu facile. In studio tirava una brutta aria, ma la direzione era chiara. Peter Buck smanettava tutto il giorno con il pedale Wah-Wah nel tentativo di perfezionare un suono che esulasse dalle composizioni contemplative pregresse. Si profilava un tour dopo 5 anni, c’era tensione. Benché Stipe non sembrò (tutt’oggi) convinto dell’artwork e di certe soluzioni adottate, il disco uscì lo stesso balzando immediatamente al primo posto delle chart inglesi e americane grazie al singolo: “What’s The Frequency, Kenneth?” – il cui testo prende in prestito le parole del regista Richard Linklater: “Withdrawal in disgust is not the same as apathy“. Ma la cosa non durò. Questo perché il fan medio della band non era propriamente incline al tipo di sonorità proposte e perché ci si aspettava, come sopracitato, un altro “Automatic For The People” – motivazione a me ignota: dev’essere sicuramente legato ad un concetto d’appartenenza tout court proprio di chi è solito crogiolarsi nel mood pacioso e rassicurante della consuetudine. Ed in merito ci sono degli aneddoti.
Se vi ricordate quel periodo, e ascoltavate musica, forse sarete stati anche voi frequentatori di quei negozi che vendevano cd usati. Erano ovunque, nelle grandi città soprattutto, ma anche nella mia piccola città (Cesena) se ne poteva trovare qualcuno. Bene, vi sarà capitato sicuramente di notare l’immagine dell’orso su sfondo arancione – la cover di Monster – disposta in più copie sugli scaffali: alcune intonse, molte in realtà. Dalle 2 alle 5 copie si trovavano in ogni negozio già qualche mese dopo l’uscita. Ci fu addirittura un giornalista che tentò l’approccio empirico portando la sua copia in negozio per calcolare quanto tempo ci sarebbe voluto prima che fosse venduta: passeranno sette anni. L’amore tradito ha i suoi tempi.
E’ in realtà uno Stipe in mutazione, anzi in assorbimento, quello che gira frettolosamente per gli studi: da una parte il lutto, dall’altra la crescente consapevolezza della sua figura pubblica enigmatica – e quest’ultima gli va a genio: “an equal opportunity lech” dirà di sé. I suoi testi qui si deflagrano nel Burroughs (William) pensiero, lasciando emergere un’ironia (da sempre presente) ancor più tagliente. Il concept girà ovviamente attorno alla questione identitaria, al come sia diventato difficile mantenere fermo il punto in un’epoca gravida di simboli caratterizzanti: dal cambio di sesso senza remore, al piercing, passando per un comparto “moda” capace oggi di renderti giudicabile al primo sguardo. Finendo per interrogarsi sul concetto stesso di realtà: E’ questa la vita o è solo una simulazione?
I R.E.M spiegano qui il loro punto di vista senza fronzoli: «Sono etero, sono frocio, sono bi” – “King of Comedy“. Nel tentativo di imparare a vivere in un mondo virtuale senza perderci per questo l’anima. Monster presenta un suono urgente, per questo inatteso, abbandonando gli intrecci curati, i mandolini e gli strumenti acustici per fare spazio al power-chord riffing. Con uno Stipe furente che ringhia: «Io non sono la tua rivista / Io non sono il televisore / Io non sono il vostro schermo cinematografico / Io non sono una merce». C’è spazio per il requiem – in “Let Me In” il nostro supplica il compianto Kurt Cobain di portarlo via con lui – e c’è spazio per la chitarra di Thurston Moore (“Crush with Eyeliner“).
Voi, la vostra copia ce l’avete ancora? Spero di si.