Leonard Cohen: nella vita ci vuole tranquillità

leonard-cohen
Montreal 1934, un’intera famiglia di immigrati Ebrei è cinta attorno a Masha mentre all’ospedale di Westmount in Quebec, da alla luce il piccolo Leo. Lei Lituana, figlia del Talmudista Rabbi Solomon Klonitsky-Kline, mentre il nonno Polacco (da parte di Padre) è il presidente del Canadian Jewish Congress. Alla faccia dell’infanzia messianica, vien da pensare.

Dopo esser stato intruppato per benino da questo manipolo di religiosi – tanto che ad un certo punto gli viene confidato di essere un discendente di Aaron, il sommo sacerdote –, il giovane Leonard decide di iscriversi alla McGill University. Ama il Country – tanto da fondare il trio The Buckskin Boys –, anche se la sua vera passione rimane la poesia. Un anno più grande di Elvis Presley, nel 1956 mentre il movimento pelvico del Re del Rock’n’Roll fa esplodere di gioia buona parte dei clitoridi americani – era uscita “Heartbreak Hotel” –, lui pubblica “Let Us Compare Mythologies“, la sua prima raccolta di versi. Era elettrizzato. Tanto da continuare con una ricerca che culminerà nel secondo volume di poesie “The Spice Box Of Earth” – questo accadeva mentre Bob Dylan stava comparendo sulla scena del Greenwich Village.

Cohen è però un tipo schivo, la cui massima aspirazione sembra quella d’intercettare i luoghi più tranquilli sulla terra e stabilircisi. Se ne va in Europa, bruciandosi tutta l’esplosione del Folk per stabilirsi nell’isola di Hydra, dove vivrà per diversi anni con sua moglie Marianne Jensen e suo figlio Axel – da cui l’ispirazione per il brano “So Long, Marianne“. Benché le vendite non andassero a gonfie vele, il mondo non capì le motivazioni dietro al suo isolamento – lui rispose negli anni seguenti con una cosa tipo: mi sono sentito meno isolato sull’isola che nelle vostre metropoli. Partita chiusa, prendere o lasciare.

Con l’ambizioso “Beautiful Losers” del 1966, viene addirittura paragonato a James Joyce da qualche critico illuminato: ma i suoi libri continuavano a viaggiare sulle 3.000 copie vendute, un po’ pochino. Qualcosa però stava per cambiare. C’era questa stazione radiofonica Greca, la Armed Forces Radio  che trasmetteva tutto il giorno musica Country. Leonard la adorava. Tutte quelle giornate in compagnia di Dylan, Joan Baez e Judy Collins, lo portarono a riflettere sulle proprie inclinazioni artistiche. Ci volle davvero poco perché realizzasse che quella della musica era la strada giusta da percorrere. Chiese un prestito e si trasferì allo storico Chelsea Hotel.

Al Chelsea Hotel si facevano un sacco di amicizie, come descriverà l’artista stesso nella sua più famosa canzone dedicata al locale:

«Non facevamo più neanche il letto. I pompini me li facevi coi cuscini che cadevano e le lenzuola che mi rigavano la schiena. Poi, quando mi dicevi di rimetterlo nelle mutande e la limousine continuava ad aspettarci sotto, ti mettevi a parlare e la tua voce era dolce. Ferma e dolce»

A fare i pompini era Janis Joplin, fra “un sorso di Southern e un sorso di lui”; ma divenne anche grande amico di Judy Collins. Al Newport Folk Festival la Collins era stata invitata per la presentazione del suo nuovo album “In My Life“, fu lì che Leonard conobbe John Hammond – il mitico manager della Columbia. Qualche tempo dopo andarono a pranzo insieme e poi tornarono al Chelsea dove Cohen si esibì in un paio di canzoni. Ricevette quasi istantaneamente un contratto: questo a causa del fatto che si profilava un esordio di sicuro successo vista la pura intensità di canzoni come “So Long Marianne“e “The Sisters Of Mercy” – e ovviamente per i rimandi allo stile di Dylan che in quel momento era in rampa di lancio.

Con Bob Dylan era amico, ma non si vedevano molto spesso. Poi l’incontro a Parigi, proprio mentre Dylan stava eseguendo la sua “Hallelujah“. Bob gli chiese quanto tempo avesse impiegato nello scrivere il pezzo, e Leonard mentì – disse due o tre anni, quando in realtà ce ne vollero cinque –, ma non bastò. Poco dopo lo stesso Bob gli spiegò che per ‘I and I‘, una delle sue canzoni, ci impiegò 15 minuti. Una diatriba fra chi ce l’ha più grosso che proprio non interessava al nostro.

Nel suo picco compositivo Leonard Cohen pubblicò “Songs From A Room” (1969) e “Songs Of Love And Hate” (1971), piazzando entrambi nella top 5 Inglese: inoltre nel 1970 partecipò al festival dell’Isola di Wight. Ma anni settanta furono duri. Decise di tornare nella sua amata isola, era ormai padre di due figli anche se la sua vita sentimentale assomigliava ad un pasticcio.

Una pausa di riflessione che terminò grazie all’avvento di Phil Spector. E’ il 1977 e la combinazione Spector/Cohen è micidiale. Alcol, sesso, droga e donne: tipo essere parte di una banda di motociclisti ma in due. Stanno lavorando a quello che sarà “Death Of A Ladies Man“, il Punk impazza e loro non sono da meno. Si trovavano da Spector, in una casa senza aria condizionata con 35 gradi al suo interno: cosa ci facevano? Forse si compativano. La vita di Leonard stava cadendo a pezzi, matrimonio compreso. Aveva perso fiducia in se stesso, nel suo lavoro, e nelle sua capacità di scrivere buone canzoni. Ne venne fuori il punto più basso della sua carriera.

“Credo che la mia prestazione lasci molto a desiderare” Dirà, “Non sapevo dove stavo andando e forse neanche Phil”

Gli anni Ottanta rappresentarono una sorta di stasi artistica. Ma riflessiva. Leonard si interessa alla meccanica del sentimento, a come le cose si manifestano, ma soprattutto a cosa significhi la parola “amore”. Si convince che l’amore vive per aiutare la nostra solitudine esistenziale, mentre è la preghiera che ci rende liberi nei confronti del senso di separazione. Nel 1988 risorge con l’album “I’m Your Man“, che gli frutta tre apparizioni alla Royal Albert Hall e una al The Prince’s Trust Gala in compagnia di Peter Gabriel e Eric Clapton. “The Future” del 1992 implementa ulteriormente i temi legati all’amore e al concetto stesso di separazione: per la prima volta manifesta inoltre una vena politica nel pezzo “Democracy”. Ma gli anni Novanta sono anche caratterizzati da un nuovo bisogno di isolamento.

leonard-cohen-meditates

Scelse un monastero Zen a 6.500 piedi di altezza, situato in California. Una cabina di montagna come casa monastica – una cosa che cozza enormemente con i deliri del Chelsea Hotel. Così, i suoi costosi abiti neri vengono sostituiti da vesti Buddiste: capelli rasati e scarpe di corda, descrivono un uomo alla continua ricerca di redenzione. Qui la meditazione si pratica fino a 18 ore al giorno, e ci si alza alle 2:30 del mattino. Niente giornali, televisione e radio.

Questo gli costerà – a detta sua – dei disturbi depressivi che con l’avvento del nuovo millennio verranno mitigati da una crescente attività artistica che produrrà materiale inedito già da “Ten New Songs” (2001). Seguito dal buon “Dear Heather” (2004) – composto in compagnia della sua sua corista storica Sharon Robinson –, dai nove brani inediti di “Popular Problems” (2014) e  da “You Want It Darker” di quest’anno – purtroppo come tutti sappiamo Cohen è venuto a mancare tre settimane prima del suo rilascio –, di cui non vediamo l’ora di parlarvi.