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21 Ottobre 2016 | columbia records | leonardcohen.com | ![]() |
Il 2016 è stato un anno di epitaffi stellari, specie in ambito musicale. Un anno di testamenti artistici, di album da mozzare il respiro (l’ultimo). Ci riferiamo ovviamente a “Blackstar” e “You Want It Darker”. Due dischi a dir poco diversi, eppure accomunati dalla sorte. Il primo l’ha eternato David Bowie in data 8 Gennaio, per poi spegnersi due giorni più tardi. Il secondo è invece opera di Leonard Cohen, morto il 7 Novembre all’età di 82 anni. Il signor C, forse uno dei pochi artisti per cui vale la pena usare espressioni come “conflitto interiore” o “ricerca spirituale”. Da “Blackstar” a “You Want it Darker”, che hanno idealmente aperto e chiuso questa curiosa e letale annata. Come passare da un buio a un altro buio, più profondo, citando “True Detective” (“Nevermind” di Cohen, usata nella sigla, era fra le poche cose salvabili della seconda stagione, quindi restiamo sempre in tema).
Il quattordicesimo lavoro in studio di Leonard Cohen, che forse non eguaglia in termini di bellezza l’epilogo discografico del Duca Bianco, è comunque un disco importante e ispirato. E se “Blackstar” ci è parsa davvero l’astronave dell’uomo che cadde sulla terra, “You Want It Darker” va invece aggiunto al novero dei poemi senza tempo, anche se il tempo, nelle sue molteplici sfaccettature filosofiche, è un po’ il protagonista dell’album. Abbiamo quindi da una parte la stella sovraccarica (ma contenutissima nel minutaggio) di Bowie, e dall’altra questa raccolta di confessioni a cuore aperto, di preghiere per divinità che ci parlano ma forse non esistono, e viceversa (l’educazione ebraica del nostro, gli esordi come poeta, nelle mani quindi di una Musa, di un altro Dio ancora). Centrale è il rapporto col figlio Adam, che ha seguito il padre nelle fasi di ultimazione del lavoro, quando ormai il signor Cohen aveva perso le speranze a causa della malattia che lo stava uccidendo. Un rapporto che sembra aver sciolto parte dei suoi nodi proprio in questa estrema fase. Ecco quindi “You Want It Darker”, che è forse il modo di Leonard Cohen per dirci “I Want It Brighter”.
Un disco che affronta questioni come il libero arbitrio (cosa farne delle nostre dannate esistenze nel poco e misterioso tempo che ci è dato vivere), le conseguenze delle nostre scelte, la nostalgia del passato che riaffiora mentre tutto attorno (e dentro, addosso) sta finendo. Il rapporto dell’uomo con una divinità che non si mostra, che lascia il peccatore nel dubbio più accecante fino all’ultimo e anche oltre (la title-track). E il peccato in Leonard Cohen è quasi sempre un peccato d’amore, la ricerca di un fantasma perduto, una luce dell’anima da perdere e ritrovare, in una storia violenta, o tenera, o mai accaduta, o solo immaginata, pensata (una possibilità mai vissuta, fra le tante mai vissute). Un vuoto da riempire in qualche modo, per allargarlo ancor di più. L’amore, il peccato, la bottiglia. Stereotipi fissi e attuali. Che nell’opera di Cohen assumono la profondità di uno scavo archeologico nei ruderi della psiche, alla ricerca delle giuste domande per mettere in crisi la coscienza, sognando la fine, e che sia quieta, dolce.
Nove brani divisi fra blues da camera, gospel, piccoli interventi elettronici, e incantevoli ballate (“Treaty”, ripresa anche nel finale con un arrangiamento d’archi). Nove brani in cui Cohen fa certo citazioni bibliche, riferimenti sacri. Ma a noi, perdonate l’eresia pagana, pare che ci sussurri usando le parole di Seneca dal “De Brevitate Vitae”, o dalle “Lettere a Lucilio”. O addirittura riesumando Lucrezio: “La morte non è nulla per noi”. Già, la morte non è niente. O forse è tutto, se la fine delle passioni è quello che ci uccide ogni giorno, invece di salvarci. Avremo modo di comprenderlo, ascoltando e riascoltando l’atto conclusivo di quest’artista. Un baritono elegante, una voce che trabocca di parole ispessite. Quasi che il significato, attraverso il soffio di Cohen, si sia impossessato del significante irrobustendone il suono. Dare corpo all’incorporeo. E dare un’anima a ciò che prima era solo corpo. Non è questo, forse, lo scopo della poesia?




