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Con “Rain dogs” del 1985 Tom Waits ci porta nuovamente nel suo territorio preferito, quello dei reietti e dei perdenti, stavolta accompagnandoci in un ipotetico lungo viaggio assieme alle sue storie di gente di bassa lega, ma che in fondo mostra di avere ancora un po’ di sensibilità sotto la dura scorza di un cuore temprato dai troppi guai.
La ruvida voce di Tom è a dir poco ideale per raccontare tutte le vicissitudini di cui diremo in seguito, è a dir poco incredibile come riesce a immedesimarsi nei suoi tanti personaggi dando l’impressione di aver egli stesso vissuto tutti queste incredibili avventure. Già, è proprio questo il bello degli album di Tom Waits, l’impressione di esser lì a sentire in prima persona il racconto di queste picaresche vicissitudini di persone cui la vita ha dato molti grattacapi, ma che in fondo sono ancora lì, che continuano a lottare in mezzo all’indifferenza del mondo.
Non c’è posto più suggestivo di un porto per iniziare un viaggio e il nostro lo sa bene: non può essere un caso quindi che “Rain dogs” si apra con “Singapore”, preludio alla partenza verso il celebre e malfamato porto asiatico; è questa una classica canzone marinaresca, in cui il protagonista ci canta delle gioie – soprattutto delle bevute – che ivi lo attendono, ma anche dei possibili guai e della durezza del lungo viaggio in nave… ma in fondo il nostro marinaio trova gusto anche nei possibili, probabili guai, imminente tempesta inclusa come i tuoni verso la fine lasciano intuire.
“Clap hands” è un grottesco pezzo quasi tribale grazie al sottofondo di marimba (una sorta di xilofono originario dell’Africa) che sembra dettata da una sana (?) sbronza, come la bottiglia vuota ma “riempita di pioggia” lascerebbe presagire. La traccia tre è “Cemetary Polka”, una delle più celebri “filastrocche da orco” con cui Waits da sempre emoziona i suoi ascoltatori, una delle classiche canzoni che ci immaginiamo cantate dai marinai durante il loro meritato riposo.
Con “Jockey full of Bourbon” la nostra nave approda a Cuba in piena notte, giusto in tempo per sentirci questo gradevole latin jazz, degustandoci magari un bell’havana in piacevole compagnia. “Tango ‘til tey’re sore” non è un tango come da titolo, ma un gradevole, malinconico blues direttamente dal delta del Mississippi: nulla di meglio per rievocare tanti spezzoni di vita vissuta. Ospiti illustri in “Black Mariah”: la chitarra di Keith Richards, grande amico di Waits, dà vita a un godibilissimo pezzo rock blues in cui la ruvida voce del nostro artista offre una prestazione semplicemente sopra le righe.
Il trittico “Diamonds and gold” – “Hang down your head” – “Time” vuole essere un momento di saggia riflessione su tutte le peripezie viste finora e sui tanti difetti dell’uomo; la prima è un pezzo in stile “Clap your hands” in cui sembra di vedere il nostro narratore parlarci dell’avidità umana fra un sorso di whisky e una tirata di pipa; “Hang down your head” è un addio al proprio amore in Dylan-style, intonato con una voce sofferta, incredibilmente dolce, mentre “Time” è un classico, sicuramente il più struggente pezzo che potrete trovare in quest’album, una malinconica e notturna riflessione su vita e amore che non potrà non colpire il cuore degli ascoltatori.
Eccoci così giunti alla title-track: chi altri mai potrebbero essere i “Rain dogs” se non i protagonisti di tutte queste storie, coloro che sotto la pioggia sembrano volersi mondare delle cattive azioni compiute, ma che in fondo cattivi non sono? Sì, un pò bastardi lo sono sicuramente, ma cattivi no. Azzeccatissima la scelta della fisarmonica, a conferire un’atmosfera popolare e in stile “clochard” parigino, oltre che un pizzico nostalgico romanticismo.
Dopo il breve intermezzo jazzistico “Midtown” inizia una lunga serie di suggestivi ritratti di vita notturna, dalla brevissima “9th and hennepin” alla lunga ballad “Gun street girl”, dall’ancora ottimo blues di “Union square” al country di “Blind love” per finire nuovamente con un ottimo pezzo jazz, “Walking spanish”.
E finalmente arriva l’ottima “Downtown train”, uno dei più celebri pezzi di Waits, un pezzo che a tratti ricorda il più suggestivo Bruce Springsteen, interpretato ovviamente con la solita, ruvida voce del nostro eroe, un pezzo rock apparentemente un po’ “easy” ma dall’aria crepuscolare che non mancherà di colpirvi; chissà, forse se il nostro “orco” avesse continuato a comporre pezzi simili avrebbe guadagnato un pubblico più ampio, ma farsi domande come queste è in fondo inutile, godiamoci il suo stile inconfondibile e questo piacevolissimo interludio (che cinque anni dopo verrà coverizzato e portato al successo da Rod Stewart qualche anno dopo). Non a caso la successiva “Bride of rain dog”, bizzarra e stridente, sembra volerci riportare un po’ bruscamente alle solite, care atmosfere di questo grandissimo cantautore.
Chiude questo nostro incredibile viaggio la fanfara jazz di “Anywhere I lay my head”: «anywhere I lay my head, boys / Well I gona call my home». È giunto il momento di riposarsi. Grazie di averci accompagnato in questo fantastico viaggio Tom, appena riparti facci un fischio che ti seguiamo volentieri.