Pink Floyd – Animals

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Il gigantesco maiale gonfiabile di oltre 10 metri di diametro, che galleggia tra le quattro ciminiere della centrale energetica di Powersea di Londra in un tardo pomeriggio nuvoloso, ci introduce ad “Animals”.
Datato 1977, disco controverso, forse perché ha la “sfortuna” di cadere proprio tra due veri e propri monumenti della storia del rock: “Wish You Were Here”
(1975) e “The Wall” (1979), e di segnare un passaggio nella musica stessa dei Floyd: non più ritmi sognanti, note d’organo avvolgenti, che fino ad allora avevano caratterizzato la produzione della band, ma accordi energetici e dissonanti, un organo presente, ma non protagonista come un tempo (sarà l’ultimo disco in cui il tastierista Wright darà un contributo effettivo, ad esempio con la suggestiva intro di “Sheep”)…
L’artefice principale di questo cambiamento porta il nome del bassista-cantante Roger Waters: sempre più mente (paranoica) trainante del gruppo, ispiratore di testi, musica e arrangiamenti. Suo è anche il concept del disco: una visione antropomorfica della condizione umana, per alcuni versi molto vicina alla satira orwelliana di “La fattoria degli animali”.
Recuperando due brani (“Gotta Be Crazy” e “Raving And Drooling”) che erano stati i punti forza dei concerti live del ’74-’75, e riadattandone il testo allo scopo di concepire un album tematico, Waters divide il genere umano in tre specie animali: i maiali, i cani e le pecore.
Ad ognuna di queste categorie è dedicato un lungo brano del disco: “Dogs”, “Pigs (Three Different Ones)” e “Sheep”…
Ad aprire e chiudere l’album, “Pigs On The Wings”, leggera ballad acustica in due parti, che in un certo senso “sdrammatizza” musicalmente e concettualmente l’intero lavoro.
Il disco, acido e polemico come non mai, contiene in sé tutta la rabbia, l’angoscia e il cinismo di Waters – sottolineati dalla voce canzonatoria in “Pigs”, filtrati dal vocoder in “Dogs”, esplicitamente dichiarati in “Sheep” (“il Signore è il mio Pastore… Mi converte in cotolette di agnello”) – per queste categorie umane, nel quale anche lui sembra riconoscersi, accettendo di includersi tra i “cani”.
I pezzi sono sempre e comuque in puro stile Floyd, con lunghi intermezzi strumentali, intricate architetture sonore, chitarre avvolgenti e buone idee compositive; manca però – e all’ascoltatore attento non può sfuggire – quell'”ispirazione” che in passato aveva portato a capolavori come “Shine On You Crazy Diamond” o “Wish You Were Here”, per citare solo due hits del precedente album. Quel “fattore X” che rende un disco un pezzo di storia della musica, così difficile da trovare oggi anche in band molto interessanti…
Qualcosa nell’ingranaggio Pink Floyd si sta lentamente ma inesorabilmente incrinando: ci sarà il tempo per un altro grandissimo, sublime album come “The Wall” prima di chiudere una parentesi di storia aperta 12 anni prima. Nel 1983 finisce un’epoca. I Floyd “post Waters” non hanno storia…