Spirit – Twelve Dreams of Dr. Sardonicus

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«Una mattina di primavera del 1970 feci visita a Neil Young alla sua casa di montagna in legno a Topanga. Lo scopo era quello di chiedergli se fosse possibile avere David Briggs come produttore per il nuovo album degli Spirit. La raccomandazione di Neil ci garantì un sì al 100%! Andai in macchina fino in fondo al canyon, mi incontrai con David e stabilii una collaborazione che, secondo la maggior parte della gente, diede vita alla miglior creazione degli Spirit fino ad oggi.»
Così il compianto Randy California ci racconta gli antefatti che portarono alla creazione di un concept storico ma purtroppo troppo poco conosciuto nonostante il livello assoluto dei suoi contenuti: “Twelve Dreams of Dr. Sardonicus”, dodici canzoni e per ognuna di esse un sogno. Un po’ psichedelia, un po’ blues, acid rock, folk… un po’ Jimi Hendrix anche, perché no, questo erano gli Spirit originari, di cui Randy Wolfe “in California” e il batterista Ed “Cass” Cassidy (che già lavorò con gente del calibro di Taj Mahal, Ry Cooder e altri big del jazz) furono le menti e gli unici membri rimasti nelle successive reincarnazioni del gruppo, il cui primo split avvenne proprio nel 1970 alcuni mesi dopo la release di questa pietra miliare.
Le due menti sì, ma gli Spirit, quegli Spirit, dovevano davvero essere una bella squadra: nella riedizione del 1996 a nostra disposizione, Randy ci presenta l’album parlando con affetto e riconoscendo i propri meriti a ognuno degli altri membri di quella gloriosa line-up, dal percussionista Jay Ferguson autore della divertente “Animal Zoo” («Che spasso fu registrare questa canzone!»), al tastierista John Locke il cui apporto fu fondamentale nella creazione di quel capolavoro space-rock chiamato “Space Child”, al bravo bassista Mark Andes, tutti hanno saputo contribuire, dare qualcosa a quest’album. Il ricordo più affezionato Randy lo dedica però al “sesto degli Spirit”, il tanto cercato produttore David Briggs, che morì nel 1995, l’anno precedente a questa re-release, l’uomo che seppe catalizzare il talento dei cinque musicisti e fu per loro come un fratello durante la produzione dell’album.
Il delicato arpeggio acustico e la voce dell’intro “Prelude” quasi impercettibile sembrano annunciarci un album atmosferico e paradisiaco, ma appena Randy attacca la spina ci tocca cambiare drasticamente idea: inizia “Nothin’ to Hide” e la sua chitarra graffia aggressiva su ispirazione hendrixiana dando vita a un genuino hard rock che sfuma nel finale in distorsioni puramente psichedeliche, quasi a introdurci “Nature’s way”. Questa seconda traccia è tutta acustica e cantata quasi interamente in coro, crea un ritmo sognante che perfettamente calza al titolo dell’album e ci evoca paesi lontani grazie alle percussioni esotico/tribaleggianti: stupisce che Randy smentisca le tante storie che circolano su di essa dicendo di averla composta in un pomeriggio pre-concerto al Fillmore West di S. Francisco, definendola addirittura la canzone che «sorse più di getto di tutte». Eppure è un capolavoro, tanto di cappello.
Uno scenario urbano di clacson ci riporta invece nelle strade d’America, e in mezzo a tutto quel casino cosa può fare il protagonista del pezzo se non andarsene all’”Animal Zoo”? Il basso di Mark Andes pulsa vivacemente in contrappunto ai ruvidi riff di mr. California, mentre il buon Cassidy dà saggio di tutta la sua perizia batteristica di matrice blues/jazz: shakerate il tutto e avrete un cocktail blues rock semplicemente esplosivo!
Come definire poi “Love has found a way” se non un inno psichedelico in piena regola, con in primo piano le sognanti e allo stesso tempo acide tastiere di Locke e un canto corale, degli elementi che ricordano più la psichedelica inglese che quella americana, ma poco importa. Così ci parla Randy di questa canzone: «Mi ricordo che eravamo tutti e cinque nella sala di registrazione, ognuno suonava un diverso strumento a percussione. Quando tornammo alla sala di controllo, David Briggs invertì il nastro e creò una traccia di ritmo al contrario. Da quella traccia costruimmo l’intera canzone.»
“Mr Skin”, scritta da Jay Ferguson, divenne uno dei più celebri brani della band e soprannome del calvo Ed Cassidy, un pezzo caratterizzato da intermezzi di fiati vagamente jazz a suon di tromba e da un pregevolissimo assolo di sassofono uniti a una sezione ritmica eccezionale basata sul trittico basso-chitarra-batteria, capace di rendere il pezzo davvero coinvolgente e da cui, se ascoltiamo bene, i Motorpsycho hanno attinto davvero parecchio, riproponendocelo a modo loro!
I tre minuti e mezzo di “Space Child” sono tutti per John Locke, che ci regala assieme al basso pulsante di Mark Andes un vero e proprio trip psichedelico fantascientifico, indescrivibile.
Dopo un’intro di tastiera da incubo, torna a ruggire la chitarra di Randy perfettamente coadiuvata dalle melodie di Locke per tutta la durata di questo acidissimo e rabbioso pezzo, questo è semplicemente rock ai livelli massimi, un pezzo che non può lasciare indifferente nessuno, con quell’urlo “more… More… More” in escalation che poi passa il testimone all’assolo di chitarra è a dir poco esaltante.
Un’intro di piano più sbarazzina e molto rock ’n roll ci regala un pezzo più tranquillo ma ugualmente pieno di ritmo grazie al drumming preciso di Ed e a un Randy che quando attacca fa male – spettacolare l’assolo, probabilmente il migliore nell’intero album – è “Street Worm”. Cori e arpeggio acustico creano atmosfere soavi e dolci in “Life has just begun”, un pezzo che spicca per delicatezza e regala all’ascoltatore la pace dei sensi. Ma quanto continuerà questo momento di pace? Ben poco, perché gli Spirit decidono ancora di farci saltare e attaccano con un jazz ’n roll esplosivo: magie chitarristiche, fiati jazz, una sessione ritmica esaltante e un ritornello in escalation fino a esplodere. “Morning will come”, i sogni stanno per finire ma vorremmo che fosse sempre notte perché il nostro viaggio continui.
E purtroppo è la fine ormai con “Soldier”, un ultimo pezzo d’atmosfera, anzi, una breve luminosa outro che ci annuncia l’alba. Fine di un album e, purtroppo, di un gruppo fantastico, che con quest’album può dire, nella sua breve carriera, di aver scritto anch’esso la sua bella paginetta nella storia della grande musica.
Semplicemente un disco perfetto e senza tempo, da sentire almeno una volta, in memoria di un grande chitarrista che l’anno successivo a questa ristampa ci ha lasciati: cercando di salvare il figlio che stava per annegare, Randy California morì nel 1997 alle Hawaii e il suo corpo non fu più restituito dall’Oceano Pacifico, ma la sua musica rimarrà per sempre.
La riedizione del disco in nice price con ricco booklet con quattro validissime bonus tracks, di cui due precedentemente inedite, è un altro ulteriore motivo per fiondarsi in negozio ad appropriarsi di questo gioiello.