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Li avevamo lasciati con uno split, alle porte del 97, per le brutte vendite del precedente album, e dopo 4 anni eccoci invece a tornare a prlare di loro , gli Animals That Swim, uno di quei gruppi che molti considerano semi-fondamentali nel brit ma che alla fine non conosce mai nessun. E chissa poi il perchè di questa loro “essenzialità”, forse il loro pregio migliore è anche il loro miglior difetto, cioè ascoltare tutto quello che c’è intorno e riprodurlo con una dose di accattivante “piacioneria” che alla lunga stucca. Ma Happiness From A Distant Star non è così, o meglio non è solo così. Il disco è forse -personalmente parlando- il più bello e interessante della band che si perde piacevolmente in territori folk-psichedelici sempre però restando ben piantati con i piedi nel brit/bret pop. Non si parla quindi di Badly Drawn Boy o South, Gli Animals That Swim hanno qui quel tocco un po’ glam un po’ sixties che li porta a presentaremelodie semplici ed efficaci. Sixteen Letters ne è il perfetto esempio com’anche The Moon And The Mothership (vagamente alla Cast) e anche la ballad per chitarra The Last Thing you Said To Me. A impreziosire l’album poi ci sono inserti di Moog (la finale Voices From Behind The Grave), batterie elettroniche (la title track)e la tromba, che è sempre stata uno tra i suoni che il gruppo preferisce usare (Dirt, Happiness From A Distant Star). Insomma, a Brit pop ormai sepolto gli Animals capiscono che possono benissimo vivere senza esso, anzi vivono addirittura meglio, riuscendo ad esprimersi con più facilità senza aver più ormai addosso il peso di essere sempre con gli occhi degli altri puntati addosso (mentre gli altri si domandano sempre che c’è da fissare).