Coral, The – Nightfreaks & the sons of becker

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Basta un ascolto, uno solo ma dato con la massima attenzione. E puoi solo dire “di nuovo! cazzo ci sono riusciti di nuovo…”
Non c’è niente da fare, forse ormai ci hanno preso gusto, ma così tanto gusto che non ci provano neanche più interesse. O forse è il loro dono.
Il nuovo album dei Coral è davvero bello. cazzo se è bello. bastano solo il giro d’apertura, con Precious eyes per essere certi che almeno un cromosoma dei Coral è targato syd barret. Un riff ondeggiante e psichedelico ma allo stesso tempo accattivante e non banale. E sono davvero in pochi a poter attingere da grandi del passato (perchè i Coral stanno anni avanti ad altri pescando da venti anni indietro a tutti) senza risultare macchiette o imitatori da mezza tacca. Tanto che con quest’album si può ormai affermare che i Coral sono formati musicalmente a tutti gli effetti.
Senti un brano, uno qualunque e c’è sempre quell’elemento destabilizzante e non puoi far altro che dire “questi possono essere solo che loro”; sia lo strano “skretch” su Grey Harpoon (sinuosa ballad con tanto di inquietante whisper)o il pazzo ritmo alla kinks su Aunties Operation, il lontano splash della batteria su I forgot My Name (che rimanda al Waters controluce che colpisce il gong di Live At Pompei), o l’atmosfera di radio-oldies di Lover’s Paradise.
E’ il suono Coral: quella strana sensazione di Caos ordinato, di un gruppo che ha una personalità compatta nonostante all’interno ognuno suona quel che vuole quando vuole e come vuole (è l’impressione che si ha su la track finale: Migrane – dal finale..cool!).
Nightfreaks & the sons of becker è molto più vicino a Magic And Medicine che all’omonimo primo album. Si respira sempre quell’odore di vintage, di gente che suona con le chitarre Hofner e Un rickenbacker del 70; suoni netti, decisi e spiccati nel loro fruscio di sottofondo dato da Valvolari da pulire o di delay a cinghia, voci filtrati con effetti alla buona. Praticamente i coral sono l’unico gruppo che trova la maturazione con l’invecchiamento. Certo, manca un po’ il piacere della hit, sia essa una Skeleton Key o una Pass It On, ma quest’album è una vera felicità per chi suona uno strumento: sembra un’incredibile lunga improvvisazione, nata da un giro di batteria a cui poi ognuno si aggiunge a modo suo (e porprio così sembra essere nata la strana disco-folk di Venom Cable) e a cui fa dispiacere non aver potuto partecipare