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“the winning Days Are gone…”
Forse si vede che gli stessi Vines sono in fondo consci che il loro secondo album è una mezza delusione. Alle canzoni manca quell’apporto matto e folle di una band che suona per fare casino divertendosi e si diverte facendo casino. Sembra quasi che Craig, a disco finito, abbia chiamato una serie di turnisti per suonarlo, col risultato di avere la stessa perfezione di suono del precedente album (c’è sempre un ottimo basso che lavora sulle canzoni, e anche una batteria che tiene alto il ritmo), ma manca l’emotività e la passione.
Il precedente album conquistava con la sua faccia tosta di melodie tanto semplici quanto orecchiabili, con chitarre che cucievano riff scontati ma infallibili, con una certa tendenza ad un recupero di melodie beatlesiane sia nei pezzi più lenti che in quelli più movimentati il tutto condito con contagiose urla da folle; Winning Days prova a percorrere la stessa strada ma il più delle volte cade nei grossolani errori che le caratteristicche sopra descritte offrono.
Così le melodie da semplici si rivelano superficiali (animal Machine, Rainfall), i riff suonano troppo ovvi (Ride) e il piacere del distorto viene usato a sproposito (Evil Town, una delle tante melodie dal cantato ondeggiante e “etilico”).
I momenti migliori dell’album diventano così quelli in cui il gruppo si lancia sul pop con le acustiche: la title track, Autumn shade 2 (che però non supera la bellezza della 1), she’s got something to say (di stampo sixties col suo cantato a 2 voci).
Niente da fare quindi per chi cercava quelle schegge come Higly Evolved, Outtaway e Get Free.. troverete solo magra consolazione nell’ultima Fu*k the world che non basterà a togliervi l’amaro lasciato in bocca da un gruppo che forse si è preso troppo sul serio , scordandosi che è arrivato lì dov’è grazie a melodie scazzate e cazzerellone.
Il comportamento da tenere e tutt’altro: Weezer docet.