The Cure – The Cure

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Ogni volta che esce un album di un Gruppo con la G maiuscola, uno di quelli che ha segnato la musica e ha una carriera che tutti invidiano (tipo Depeche Mode, Rem, Pink Floyd) bisogna sempre affrontare il disco in 2 distinti modi: Il nuovo lavoro interno alla discografia stessa della band e il nuovo lavoro come disco a sé stante che entra nel mercato.
Questo perché ci si aspetta che un gruppo che ha segnato una strada continui a segnarla all’interno della sua storia, sia sua sia della musica.
In questo caso, però, la faccenda si fa ancora più complicata, perché il nuovo disco dei cure ha la “presunzione” di chiamarsi in modo omonimo. E ogni volta che il disco ha il titolo dell’autore significa 2 cose, o una nuova partenza verso tutt’altri lidi sonori (Blur – Blur 1998) oppure che si tirano le somme, facendo un riassuntone del sound/style prodotto (Supergrass – Supergrass 1999).

In un certo senso anche per The Cure – The Cure è così…In un certo senso…
Non c’è affatto un cambio di direzione, una ricerca di nuovi sound o arrangiamenti. Il nuovo produttore, tanto temuto (almeno da me) per le sue collaborazioni con i Korn, ha solo portato a una leggera cattiveria nei suoni (abbandonate le gibson 335 per le ibanez) a qualche distorsione gratuita francamente evitabile, merito da attribuirgli è una batteria decisamente più fresca e brillante.
Per quanto riguarda le canzoni non si può certo tirare in mezzo i vecchi capolavori, sebbene qua e là si sentono auto-plagi: il riff di Alt.End parte come il riff di In Your House e Taking Off suona come una Just like heaven (un po’ troppo a dire il vero! Sembra che hanno preso lo stesso arrangiamento adattandolo a una nuova song: piano e tastiere d’archi, rullate sui tom, chitarra con quel delay leggermente flanger-ato…).
Per dirla tutta non si può neanche parlare di “capolavori” in generale, in quanto i brani si fermano -a parer mio- al muro del piacevole-mentre-si-ascolta non riuscendo a scavalcarlo per generare quell’interesse/curiosità degno di un album che ha qualcosa di nuovo da dire.
Come giustificare quindi il titolo di questo lavoro? Semplice questo è il meglio che i Cure riescono ora ad offrire, un disco in cui tendono quasi a rileggersi ma senza reinterpretarsi, a suonare come solo loro sanno fare (frase che si deve leggere come “suonare in un modo che solo a loro riesce” e “suonare nell’unico modo che gli riesce”) riuscendo a tirar fuori un disco adatto a far contenti i vecchi fan quel che basta ed magari ad raccattarne di nuovi in giro (certo che se questo compito spetta a The end of the world… vabbè…)

Il disco ha un inizio puramente Dark (uso questo termine anche se è un po’ ridicolo abbinato ai cure del 2004, lo faccio per il mascara ed il rossetto di Robert smith) con brani che ricordano per impatto e “pesantezza” Bloodflowers: Lost ha uno strano crescendo che invece che “alzarsi” tende ad “allargarsi” (un po’ tipo Robert Smith . ah-ah-ah battutona) ad espandersi e ad avvolgere col suo incedere secco. Labyrinth riporta direttamente a Disintegration, forte di un incipit in cui i suoni pian piano riempiono finchè non esplodono nell’arrangiamento dopo 2 minuti e mezzo, un’attesa che si fa allo stesso tempo snervante e accattivante (peccato che la “botta di suono” non è così coinvolgente come si lasciava ad aspettare).
Before Three fa parte di quella serie di canzoni che potrebbero dirsi più filo-Wish, brani come questo trovano più spazio nella seconda parte, raggiungendo il massimo in Taking Off.
La seguente The End Of The World è il singolo che apre la strada all’album, piacevole e, se ascoltata attentamente, ricca di ottime trovate (il charleston aperto a ogni fine verso, il basso che segue la voce di Smith, un ottimo synth, le battute secche di batteria elettronica nel prechorus che scandiscono meglio il tempo e il ritmo) ma anche di qualche banalità troppo nostalgica (reputo quel uh-uh-uhhh nel finale imbarazzante come pochi). Anniversary gode di una batteria elettronica su cui si insinuano splendidamente tastiera e basso distorto, e personalmente in fatto di atmosfera la reputo il miglior brano del disco.
Us or Them è degna di nota solo per la voce graffiante e energica di Robert (credo mai stata così energica) mentre Alt. End parte con un piacevole tuffo nel passato (vuoi il riff alla In Your house o la batteria molto 80ies) che però nel chorus si collega più a Bloodflowers (soprattutto per il suono delle chitarre e il loro giro).
Il trio (I don’t know what’s going) On, Taking Off e Never è un ritorno ad atmosfere pop, a una freschezza e un’omogeneità del suono che fa tornare alla mente la spensieratezza di Wish. Da notare l’organo stile Close to me della prima e la 12 corde acustica (ed è l’unica volta in tutto il disco in cui spicca un’acustica) della seconda.
Il disco si chiude gli oltre 10 minuti di Promise, sinceramente un piccolo capolavoro (altro pezzo top del disco)che non sfigurerebbe assolutamente ad apertura concerto. Maestoso e imponente, si insinua giocando tra il riff portante della chitarra e il wah wah dell’altra.

Insomma tutto sommato un lavoro più che piacevole, che certo non brilla per inventiva ma ci restituisce una band che sempre più in forma del solito, ci si può ritenere soddisfatti. Un disco pieno di belle canzoni che però non riescono a fare un Album interessante con la A maiuscola.