Libertines, The – The Libertines

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Come sbronzi da un successo di cui ancora molti si chiedono dove sia il vero merito, i Libertines si adagiano in questo secondo lavoro e, proprio quando la band viene sballottata da un tabloid all’altro, da un Pete che fa colazione con droga in Tailandia (cazzo, sembra “Ai confini della realtà”), a un Carl che lascia sempre le porte aperte al compagno nel caso si disintossichi (secondo me manco lui ci crede), sempre sull’orlo di una crisi e dello scioglimento, arriva alle stampe un album che, rispetto a Up the bracket è molto più ordinato, preciso, con un profumo dandy che non stona con l’immagine da rocker sudaticcio.
Altro che distorsioni a manetta e la batteria che rincorre le chitarre sferraglianti, altro che il sudore sui capelli che cola lungo le guance e i concerti infuriati ma soprattutto altro che Clash!
I nuovi Libertines sembrano aver ascoltato Smiths e Morrisey parecchio e, vuoi l’ammirazione mai nascosta o le recenti date aperte per il Moz, la musica ne ha risentito.
C’è sempre quel cantato spensierato/svogliato, che si lancia in vocalizzi un po’ banalotti (la-la-la The man who would be kind), ma ci sono anche i cori quasi in stile Beatles invece delle seguiate voci a cui eravamo abituati, e un buon tocco di quella new-wave anni 80 molto melodica, un pop raffinato nella sua schiettezza.
Basta sentire un pezzo come Music when the lights go out e si capisce subito che in questo omonimo album niente è lasciato al caso.
Per quanto “arraffati” possano sempre sembrare i pezzi (l’assolo di armonica su Can’t stand me now e qualche nota stoppata gratuita di troppo) è tutto studiato nei minimi particolari… Dall’ultimo secondo del feedback agli strilli fuori campo… Tutto sembra deciso a tavolino…
Ed è un bene?..
Ovviamente No!
Premettendo che io amo molto il debutto dei Libertines confesso che questo album mi ha deluso, è un po’ uno “scarto di zuppa riscaldata” (che è ancor meno di una zuppa riscaldata!), dove i bocconi buoni scarseggiano affogati in una minestra di luoghi comuni, di ritmi già sentiti (Narcisist) o peggio ancora nella triste imitazione di sé sessi (arbeit mach frei).
Dov’è il problema? La spontaneità!
Manca totalmente e per gruppi come i Libertines significa tutto. Non condanno questo cambio di rotta e ben venga questo amore per il pop inglese di vecchia data, anzi se tutto il disco suonasse come The Ha-ha wall, la stessa Can’t stand me now (che a prima vista sembra un motivetto banale, ma ha nel ritmo il suo punto di forza), what became of the likely lads avremmo tra le mani un bellissimo seguito, che non riuscirebbe ugualmente ad essere al livello del precedente, ma sarebbe per lo meno interessante e divertente. Ma ascolto dopo ascolto matura la sensazione che le idee sono poche e perd i più poco chiare, i buoni sono isolati (Campaign of hate ha un bell’intro, ma solo quello), si banalizzano (What katie did in mano ai Coral sarebbe stata tutta un’altra cosa) e, complici delle linee vocali un po’ troppo “buttate lì”, non risultano fresche e spontanee affossando il disco e facendogli mancare la sufficienza.

Ecco spiegato perché la stampa inglese ora parla così tanto solo Libertines, perché sulla loro nuova musica c’è davvero poco da dire, se non del male.