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Tra i capiscuola del movimento Doom Gothic – insieme a My Dying Bride, Tiamat e, non ultimi, gli Anathema dei quali per altro conosciamo la splendida realtà attuale – emerso agli inizi degli anni 90, i Paradise Lost sono gli autori di “Host”, uno degli album più discussi di fine millennio. I nostri conobbero una graduale trasformazione artistica iniziata nel 1993 con il loro disco più bello dell’era metal , “Icon”, che già prendeva le distanze dai loro dischi più rappresentativi come “Shades of God”, proseguita con il discreto “Draconian Times”, in cui si faceva più presente una attitudine che col metal cominciava ad avere poco da spartire. Il primo, forte segnale di cambiamento si ha con “One Second”, in cui la band palesava un gusto melodico non comune, una abilità di arrangiamento davvero particolare considerate le ruvide origini, ma nessuno si sarebbe aspettato un album come “Host”. Dimenticatevi le chitarre ultra distorte, batterie super compresse, growls vocals – in verità abbandonate già da tempo – aggiungete a questo un’ immancabile lucidata al look ed eccovi i Paradise Lost a misurarsi con una sfida titanica, un autentico omaggio alla musica pop elettronica. Inevitabili i paragoni con i Depeche Mode, inevitabili le critiche che i nostri furono costretti a sopportare da parte di quei fans che mal digerirono un cambiamento così forte che sembrava rinnegare il loro scomodo passato di band heavy metal. Questa è una storia ricorrente, tanti sono stati i casi di metal bands che hanno deciso di tagliare corto col passato, e l’ accusa si pronunciava sempre sul solito fronte: tradimento. Sinceramente non capisco questo accanirsi verso chi decide di intraprendere altre strade artistiche, specialmente nel caso di questo “Host” dei Paradise Lost, che risulta essere una gemma di rock/pop elettronico, che addirittura sembra anticipare i tempi di alcune bands di altri circuiti, come i rinati Notwist, gli ultimi Orb, Planet Funk o altri figli dei Depeche Mode. Il disco in sé è bellissimo, e mette in luce una capacità compositiva davvero straordinaria, sembra quasi di star ascoltando una band che ha sempre suonato questo genere, caratterizzato da synth, beat elettronici programmati, ritmi accattivanti e melodie di rara bellezza. Appare in smagliante forma il singer Nick Holmes, per anni accusato di eccessiva stima nei confronti di James Hatfield, e qui autore al contrario di una prova personale e di assoluto rispetto. La mente storica del gruppo, Gregor Mackintosh, è comunque l’artefice principale dell’affascinante sound di questo nuovo corso del gruppo, alle prese con soavi ricami di tastiera uniti a intelligenti e misurati innesti chitarristici. Gli episodi migliori sono da individuarsi in “So much is lost”, “In All Honesty”, anthemiche e trascinanti, nella oscura “It’s too late”, e nella enigmatica “Permanet solution”. Sebbene gli altri brani non riportino particolari cadute di tono, sono questi gli episodi che a mio parere avrebbero avuto tutte le carte in regola per conquistare gli amanti del pop/rock elettronico. In realtà il disco è stato un autentico flop commerciale, molte delle colpe vanno destinate alla casa discografica che non ha saputo collocare l’opera nei circuiti adatti, tanto meno pubblicizzare il disco presso i giusti magazines, optando per una rieducazione del pubblico metal che non ha avuto gli effetti sperati. A mio parere se si fosse trattato con più cura questo aspetto probabilmente “Host” sarebbe finito nelle case di molti ragazzi estasiati dai lavori dei Depeche Mode, al contrario così facendo si è condannato un ottimo lavoro ad un ingiusto oblio. Purtroppo le vendite deludenti hanno costretto il gruppo a correggere nuovamente la propia rotta, e dopo un dignitoso album come “Believe in nothing”, che già metteva in luce un deciso ripensamento stilistico rispetto ad “Host”, i Paradise Lost sono tornati verso lidi più propriamente metal, che niente aggiungono al loro passato e che lasciano l’amaro in bocca se si pensa a cosa avrebbero potuto fare dopo un disco di classe sopraffina come “Host”. Peccato.
Un disco che merita un’ attenta e onesta rivalutazione.