Arcade Fire – Funeral

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I Canadesi ce la stanno mettendo tutta per farsi perdonare per l’aver dato i natali a Bryan Adams e Alanis Morisette, e così dopo i Broken Social Scene ecco la nuova new sensation, gli Arcade Fire. E anche loro si meritano tutto il bene che gli si dice.
Gli Arcade Fire sono una band tutta in famiglia (2 fratelli, la moglie di uno di essi ed un amico) che ha in sé lo spirito dei Broken Social Scene, il sound un po’ Franz Ferdinand ma soprattutto la follia tipica dei Talking Heads. Insomma, i presupposti giusti per un discone che, se non fosse per il solito ritardo europeo nelle uscite (arriverà da noi a marzo 2005, mentre in USA è uscito l’anno scorso), si potrebbe direttamente inserire nella top ten 2004.
Il disco è tagliente e diretto, ma soprattutto con un mood di quell’indie giocosamente vario e affezionato alla new wave, come la moda di ora conviene. I brani suonano secchi e vanno dritti in testa, grazie alle batterie che alternano splendidamente ritmi beat, giocati “sul tipico ritmo di cassa rullante e charleston” a tempi maestosi e solenni, in cui la profondità di cassa e timpano si fanno portatori di una solennità maestosa, che in alcuni momenti raggiunge quasi il “sacrale”.
Stupisce la lucida follia con la quale la band cambia atteggiamento e suono all’interno della stessa canzone: Wake up parte come un brano con la chitarra in primo piano, ma neanche 30 secondi e si viene sommersi da un coro in tipico stile Polyphonic Spree, e proprio quando pensi che la sorpresa sia finita il brano acquista un ritmo e una cadenza tipicamente synth-pop anni 80 (la batteria ricorda gli Wham di “wake me up before you go”). Crown of Love è un brano romantico un po’ nerd, come solo i Pulp di It sapevano fare, con un piano semplice che tiene i quarti e un violino acerbo a ricamare, e alla fine …metamorfosi! Si tramuta in un pezzo disco alla Donna Summer.
Impossibile annoiarsi e non restare colpiti da questi improvvisi cambiamenti d’umore che catturano l’attenzione dell’ascoltatore. Il meglio, in parer mio, Gli Arcade Fire lo danno nei brani schiacciasassi, quelli il cui andamento deciso costringe a tenere il tempo con un headbanging. Parlo soprattutto di Neighborhood#2, che unisce alla voce di Win Butler, quella della compagna Régine Chassagne, e Power Out, che alterna accordi maggiori nel cantato quelli minori nella parte strumentale, portando la canzone ad oscillare ora tra un gioioso motivo energico ora ad un cupo ed inquietante beat eighties.
Ambedue le canzoni, come del resto tutto il disco, si portano dietro un bagaglio un po’ pesante: lo spirito dei Talking Heads (presente anche nel pezzo Haiti). Il confronto tra le 2 band si fa pressante, vuoi per via del cantato, che quando non è melodico ricorda quello teatrale di Remain in the light, o per i tipici ritmi new wave con cui il disco gioca, o per la genialità/follia con cui gli Arcade accostano tra loro i ritmi e i brani della scaletta. Dalla loro gli Arcade Fire mostrano un uso maggiore delle chitarre, sia acustiche (Neighborhood #4 – 7 Kitties) che con leggeri overdrive di fondo come in Neighborhood #1 –Tunnel, brano che con il suo incedere quasi epico apre il cd, in stile Next Exit degli Interpol, ma decisamente più riuscita.
Un ottimo lavoro, che se non contiamo il breve ep omonimo si può definire un esordio che fa promettere e sperare grandi cose per questa band .