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A due anni dalla sua scomparsa, ancora non ci si riesce a capacitare del fatto che Johnny Cash ci abbia lasciati e molti, incluso chi vi scrive, stanno attendendo con ansia quel suo ultimo (?) lascito che sarà “American V”, nuovo capitolo degli American Recordings che sicuramente riserverà nuove sorprese a tutti quelli che hanno amato the Man in Black. Ma uno dei modi migliori per ricordare Johnny consiste nel riascoltarlo al massimo del suo splendore, mettendo nel proprio stereo uno dei suoi magnifici live. La scelta è caduta inevitabilmente su “Johnny Cash at San Quentin”, un concerto edito finalmente in versione integrale solo nel 2000, a 31 anni dalla release originale nell’assai meno capiente – in termini di tempo, ovviamente – vinile. Sappiamo che Johnny Cash era un personaggio fuori dagli schemi, strenuo difensore di emarginati e perdenti, di quei “rogue” banditi dalla società americana e rinchiusi in quelle prigioni infernali entrate tristemente nella leggenda: Folsom, San Quentin, Sing Sing… luoghi di penitenza e repressione, che pure hanno avuto modo di dare un contributo degno di nota nella storia della grande musica americana; a pensare che da luoghi come l’infame penitenziario di Parchman, ben descritto dalle opere di Alan Lomax, sono usciti fondamentali motivi della tradizione folk ed hanno preso vita figure leggendarie di banditi e musicisti, viene semplicemente da stupirsi del potere della musica, capace di uscire dal cuore indurito di gente provata dalle proprie colpe e dalle vessazioni di certi secondini. Beninteso, con questo non è certo mia intenzione fare l’apologia di gente che ha commesso dei crimini, però se certi luoghi sono oggi ricordati come dei veri e propri inferi, bisogna essere consapevoli del fatto che oltre ai dannati qui c’erano anche dei bei diavoli… E Johnny era proprio dalla parte di questi dannati. Lui, caduto da giovane nel vortice della droga e dell’alcool, aveva toccato già da star il suolo di Folsom, dove scontò una pena per detenzione di droghe. Cash aveva provato sulla propria pelle ciò che avveniva in questi luoghi nell’America perbenista, solo che lui ne era uscito, in tutti i sensi, grazie all’amore dell’amata June Carter. Chissà, forse egli tornò nel 1968 a Folsom e in quello successivo se ne andò a San Quentin per prendersi una rivincita, per dire «ehi, eccomi qua, sono libero, sono sopravvissuto a quest’inferno!», ma conoscendo che uomo era è più lecito pensare che egli volesse semplicemente allietare i detenuti con la sua musica, regalando loro un bello spettacolo e invitandoli a non mollare. E ci mise tutta l’anima in questi concerti. Il motivo per cui ho scelto di parlare del “San Quentin” sta nel fatto che trovo anzitutto l’esibizione migliore e più ricca di dialogo col pubblico, che apprezza e acclama il suo eroe divenendo parte integrante dello show. Johnny con la sua band snocciola tutto il meglio del suo repertorio country mostrando una forma smagliante: “Big river”, “I walk the line” “Darlin’ companion” (splendido duetto con June), “A Boy named Sue”, “Folsom Prison Blues” e “Ring of Fire” sono brani epocali che incendiano questo insolito pubblico, che sembra riscoprire le gioie di una vita normale ascoltando la splendida musica di Cash. Lui era lì per quelle 1000 persone, poco gli fregava della Granata TV che riprendeva l’evento e propose i brani che sapeva il pubblico avrebbe apprezzato, voleva parlare esclusivamente con loro e non c’è da stupirsi del famoso dito medio ai cameraman della TV, che gli impedivano di vedere il pubblico, stando al racconto che Johnny ci fa nell’ottimo booklet del CD. Il momento più emozionante è sicuramente quello della doppia proposizione di “San Quentin”, più che una canzone di protesta un’autentica maledizione lanciata contro le istituzioni e lo stesso carcere che era solo «un inferno vivente… San Quentin possa tu marcire e bruciare… e possa il mondo rimpiangere che tu non hai mai fatto del bene». Una performance tanto gradita dal pubblico, al punto che Johhny offre con estremo piacere un immediato bis, fatto insolito su un album dal vivo. “San Quentin” è un live particolare che colpisce per la sua incredibile intensità e ci rivela tanto le doti artistiche quanto quelle umane di quel burbero uomo in nero che continua a mancarci con la sua voce inconfondibile ed il suo carisma tenebroso. E poi che emozione sentirlo dire ancora «Hello! I’m Johnny Cash». Un concerto mitico, fra i migliori live di sempre. Grazie ancora, Johnny. E grazie anche alla Columbia, per l’ottima ristampa completa, riccamente corredata di foto e interviste in nice-price. Insomma, non cii sono proprio scuse per non portarsi a casa questo pezzo di storia.