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Come si sta lassù, come ci si sente? In cima alle preferenze di migliaia di neo rockers che attraverso di loro hanno scoperto l’esistenza di una certa new wave e del punk funk, e contemporaneamente al vertice della lista nera di chi ha deciso a priori che una copertina di NME sia inequivocabile sintomo di posticcio, che espone al pubblico ludibrio chi la (s)ventura di esservi immortalato. Ed eccoli lì, distanti ed irraggiungibili, al cospetto del secondo album, parto tanto atteso da entrambe le schiere, quella dei seguaci e quella dei detrattori, con intenzioni diametralmente opposte: “santi subito” per i Kapra-boys, recidivi senza attenuanti generiche per i Neo Con del rock. Noi non vogliamo intrattenerci oltre in queste diatribe di Biscardiana memoria, e andiamo dritti per la nostra strada, parleremo soltanto di canzoni e di “good vibrations”, e ragazzi, questo disco ne provoca a secchiate, confermando la freschezza generante del debutto, la selvaggia determinazione a smuovere gambe e cervelli, la ricerca sistematica dell’uncino melodico azzeccato, e mostrando confortanti segnali di crescita e di sviluppo. Il disco parte con una micidiale tripletta,tre fendenti ben assestati:“The fallen”, con le sue apparizioni Clashiane, il basso che rotola come meglio non potrebbe, e quei coretti che fanno pensare ai Blur e alle migliori 90’s d’Albione, a ruota il singolo “Do you want”, tra mutant disco e garage rock, passo marziale e coretti faceti, un autentico spasso che si immagina con piacere tra le mani di James Murphy e i suoi DFA( chissà cosa ne verrebbe fuori….). I Franz si portano il pallone a casa con la terza parte di questo invidiabile “hattrick”, la staffilata di “This boy”, che parte a razzo e rilascia scintille incendiarie, Liquid Liquid e Gang Of Four a braccetto, ma con una precisione, una focalizzazione dell’obiettivo, una consapevolezza pop che i loro avi post punk non sapevano e non volevano dimostrare. Fino a qui le conferme, piacevolissime dichiarazioni di intenti. Ma c’è di più, e lo dimostrano episodi come “Walk away”, e soprattutto “Eleonor put your boots on”, piccoli affreschi pop, memorie Kinksiane nel primo caso, vera e propria epifania del migliore canzoniere britannico dei 60’s nel secondo. Quello che non ti aspetteresti da loro, soprattutto per la delicatezza del tocco, per niente posticcio o ruffiano, quasi un viaggio nella macchina del tempo, un sincero omaggio, una carezza. “Evil and a heathen” fa da spartiacque tra le due canzoni appena citate, un monolite nero, un blues rock degno di Black Keys e White Stripes, tritacarne dove Who e Jon Spencer convolano a giuste e fatali nozze, laddove “You’re the reason” e’ puro Franz Ferdinand style, svelta e sempre in bilico tra magnetismo ieratico e autosberleffo, la vera caratteristica delle melodie degli scozzesi. Non distante da queste atmosfere “Well that easy”, con quei cambi di tempo oramai proverbiali, tra filastrocche da campagna e autostrade a nove corsie. Se per il primo album sono stati chiamati in causa i numi del rock americano dei primi 80, canzoni come “What you meant” denotano quanto i nostri siano egualmente debitori di trent’anni di rock britannico, dal 67 al 97. Ottimi sintetisti, per niente fuori luogo, tant’e’ che questa gemma evoca tutto e niente al contempo. E si potrebbe continuare, ma si lascia il succoso compito al lettore che vorrà provarci, almeno, segnalando solo il minuetto piano, voce e chitarra acustica di “Fade together”, altra deliziosa tisana. Questo disco si staglia di netto dalla media delle produzioni rock ed è destinato a rimanere ben saldo nei lettori per molto e molto tempo ancora. Un plauso a Kapranos e soci, capaci di guardare avanti e disegnare melodie e stacchi memorabili. Vorremmo tutti che il mondo non entrasse nella nostra cameretta e che Mtv non rendesse universali i nostri tesori, ma non possiamo farci nulla, se non drizzare l’antenna, frugare negli anfratti nella memoria, e separare i fiori dalla spazzatura. Vorrà dire che almeno al loro prossimo concerto potrete finalmente saltellare sui piedi di qualche VIP che odiate….
Autore: Daniele Guasco
In un anno ne succedono di cose, cambia la gente, cambiano i costumi e la società, e così cambia anche la musica: nascono nuovi gruppi, altri muoiono, alcuni migliorano la propria arte ed altri la peggiorano vistosamente. Era più o meno un anno e mezzo fa quando usciva l’esordio col botto degli scozzesi Franz Ferdinand, e ricordo ancora con enorme piacere quella valanga di rock che mi aveva sommerso al primo ascolto, un rock fresco e sincero, non originalissimo ma comunque con un mordente e una carica che non poterono fare a meno di conquistarmi e di portare quel disco tra i miei ascolti preferiti per molti mesi. È passato appunto un anno e qualche mese e mi trovo tra le mani il successore di quel disco esplosivo, il fresco di stampa “You could have it so much better”. Solo che abbiamo appunto un cambiamento: se il disco precedente era una valanga questo nella maggior parte della sua durata è una palude. Questo perché il nuovo lavoro dei Franz Ferdinand già da un primo ascolto suona come un compitino a casa svolto pure male, scopiazzando dai vecchi quaderni dei fratelli maggiori. Con questo non voglio dire né che sia suonato male (tuttaltro) né che non sia divertente o ballabile (è comunque un disco veloce e rock), ma che a differenza del precedente lo trovo un lavoro vuoto, che puzza di vecchio, senza idee e più che altro senza quella capacità di conquistarmi che per me è un fattore fondamentale in un disco. A parte la movimentata e godibilissima “The fallen” che apre l’album e la carinissima e fresca ballata “Walk away”, unici due brani capaci di conquistarmi, il disco scorre senza toccarmi minimamente, lasciandomi nella totale indifferenza. Solo prendendo il singolo “Do you want to” vengo assalito da un senso d’inutilità di quello che sto sentendo totale, un brano totalmente innocuo e senza la benché minima capacità di darmi anche la più piccola delle emozioni. Altro esempio la mancanza di contenuti di “Evil and the heaten”, perché non basta un bel ritmo a fare un bel brano. Altra fattore a sfavore: tutta questa corrente musicale che parte dagli Strokes, passa per i brmc e arriva appunto ai Franz Ferdinand prende dalla musica di trenta/quaranta anni fa, ma certe volte (come appunto nell’esordio dei Franz Ferdinand) sa bene come dargli personalità propria, cosa che invece non accade ad esempio (plateale) con la conclusiva “Fade togheter”, questo non è per forza un difetto, ma francamente, se voglio ascoltare i Beatles ascolto i Beatles, e non gli ultimi arrivati dalla Scozia. Per concludere un album che m’ha lasciato l’amaro in bocca, totalmente privo di quella carica che me l’aveva fatto aspettare con ansia. Spero che sappiano riconquistarmi con un terzo capitolo di nuovo fragoroso e coinvolgente, nell’attesa ritorno all’esordio e mi rifaccio travolgere dalle note di “Jacqueline” e “Take me out”.