Pink Floyd – The Piper At The Gates Of Dawn

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Di artisti come Syd Barrett non ne esistono più. Pittore, poeta, musicista dal talento sconfinato sbocciato alle porte della stagione psichedelica. Vi entrò trionfalmente su invito di qualche architetto, compagno d’avventura imminente e dotato di scaltro intuito, che intravide il valore di quella manciata di canzoni salvate su sgualciti fogli di carta. Pop songs che di lì a breve sarebbero diventati singoli di gran successo. Dovrei parlarvi dei Pink Floyd in questo mio omaggio al disco psichedelico per antonomasia, ma “The piper at the gates of dawn” fu opera di Syd Barrett, nella sua gestazione e ancor prima nella sua mente e nel suo cuore, fu opera soprattutto di Syd. E gli altri Floyd, Waters/Mason/Wright, per l’unica volta nella loro storia furono davvero consapevoli che tra loro ci fosse un artista di altro livello rispetto a loro. Dunque lasciarlo sfogare non fu solo ovvio, ma anche doveroso. E non si sbagliavano su Barrett. Non mi riferisco solo a loro: tutti, da John Peel a Peter Jenner e Norman Smith (questi ultimi due rispettivamente manager e produttore dei Pink Floyd in quegli anni) sapevano che i Floyd di Syd Bartett erano tra i pochi in grado di mettere in scena una musica con dei suoni mai sentiti fino ad allora. Già, perchè tutto ciò che stava succedendo in California arrivava in Inghilterra quasi sempre sotto forma di racconto, in un’epoca non ancora dominata da internet e dai mass media. E il merito di quei suoni era soprattutto della chitarra visionaria di Syd e più in generale delle sue innocenti canzoni, che nate quasi da input fanciulleschi, si dirigevano direttamente al cosmo senza le ambizioni umane di questo mondo, attraverso quelle rincorse chitarristiche e bizzarrie sonore che violentavano le sue unità echo, uscendone ancor più devastate e diventandone marchio di fabbrica, nonchè la vera fortuna della prima, gloriosa stagione della storia dei Pink Floyd. E se ne accorsero anche i Beatles, i quali ad Abbey Road, mentre scolpivano il loro capolavoro, erano soliti gettare più di una cimice nello studio accanto, per verificare cosa quel giovane e bizzarro artista stesse suonando, cosa la sua mente stesse cercando, finendo, si dice, per rimanerne anche loro pesantemente influenzati. Era il 1967, l’anno della psichedelia della Swinging London, l’anno di “Lucy in the sky with diamonds” certo, ma se lo domandate a qualche assiduo frequentatore dell’Ufo o a chi ebbe la fortuna di assistere al 14 hours technicolor dream, sono sicuro che risponderebbe che il 1967 fu soprattutto l’anno di “Astronomy Domine”, il cosmo e lo spazio secondo Barrett, l’ordine dei pianeti secondo la sua personalissima visione, allargata dagli acidi che già al tempo distorcevano le sue panoramiche. Si dice che durante una delle sue esperienze con l’LSD, usando arance, mele e frutta in genere, Barrett dimostrò la disposizione dei pianeti secondo la sua personalissima interpretazione, quasi infantile, che si vedeva risvegliata ogni qual volta decideva di concedersi quei viaggi. In questo clima nacque appunto “Astronomy Domine”, leggendario esordio del disco, un viaggio per l’appunto, rock psichedelico e spaziale senza confini, chitarre pulsanti, dilatate e distorte da echo ed overdrive, organi fumosi e una voce, quella di Barrett, che se ne infischia di intonazione, bel canto e formalità varie: è solo spirito, necessità di espressione che punta dritta alla follia. Fanno parte del disco una serie di canzoni a metà tra fiaba e ricordi di infanzia; Barrett era maestro nel rendere complici i mondi del fiabesco e i ricordi confusi, ma reali, della sua neanche tanto lontana giovinezza, mescolando dunque fatti realmente accaduti con certe magnifiche, quanto pericolose, deviazioni della sua mente. Tutto questo soffice delirio, non lontano dai tratti di un mondo dell’assurdo piacevolmente incantato, si confonde dunque coi tempi e con gli ambienti della sua realtà personale, diventando arte sopraffina in canzoni come “Bike”, “Lucifer Sam”, “Matilda Mother”, il cui intermezzo organistico rimane una delle cose migliori mai fatte in carriera da Richard Wright. Sono filastrocche psichedeliche, favole lisergiche, dominate da chitarra, organo e voce su un solido e pulsante tappeto ritmico, tra i più efficaci emersi all’epoca. Piccola parentesi per l’allora baffuto drummer: dite quel che volete di un batterista come Nick Mason: è tutto vero quel che si pensa di lui, della sua tecnica elementare. Tuttavia troppo spesso non gli si riconosce un merito infinito: quello di aver fornito ai Pink Floyd, di qualsiasi decennio, line-up e di qualsiasi disco, una batteria semplicemente perfetta, e perfetta nella sua semplicità. Non credo sia poco. Chiusa parentesi. Si rimane letteralmente atterriti per l’efficacia e la bellezza espresse durante l’ascolto di questi piccoli gioielli, che a guardar bene nascondono anche una celata malinconia e nostalgia per gli anni che non torneranno, tema che poi Waters avrà modo di sviluppare anche in uno dei suoi multimilionari masterpiece. Ancora un saluto barrettiano al cosmo nello strumentale “Interstellar Overdrive”, una composizione che dal vivo diventava qualcosa che a parole è difficile descrivere, ne abbiamo qualche testimonianza nei molti bootleg in giro. La versione che abbiamo su “Piper” è ottima, ossessiva, alienante e ben bilanciata, ma credo tuttavia che ciò che quei Floyd riuscivano a fare dal vivo sia stato qualcosa di unico ed irripetibile, non facilmente incasellabile nei solchi ragionati di un vinile di esordio. Dopo la pubblicazione di “Piper at the gates of dawn” sappiamo tutti com’è andata, Barrett si è rinchiuso in sé stesso, alla ricerca di quel fanciullo che al suo di fuori era inevitabilmente cresciuto e che tutti vedevano come una star sforna singoli di successo. A lui le charts non interessavano, a Syd Barrett interessava l’arte, la libertà di esprimersi secondo i suoi più intimi bisogni, che negli ultimi momenti con la band cercava nel vuoto perso di un punto qualunque dello spazio a lui fedele e circostante e nella ripetitività di un accordo suonato all’infinito, quasi come fosse l’ultimo, quasi non lo volesse mai più abbandonare. Cadrà smarrito tra i suoi deliri e le sue angosce, stroncato dagli acidi, dalle droghe, dai funghi allucinogeni, e c’è qualcuno che giura che aver assistito allo sballo di Barrett in preda alle allucinazioni fosse stato quanto di più divertente. Bastardo. Si rialzerà più tardi con l’aiuto di qualche Pink Floyd arricchito, forse assillato da qualche responsabilità di troppo in questa triste storia. Ma in pochi si accorgeranno dei suoi dischi solisti, oggi dischi di culto. Vi domanderete perché mi sono soffermato così poco sulla descrizione delle canzoni di questo disco che, insieme al “Sgt Pepper”, è il simbolo della psichedelia inglese e forse mondiale, per molti il punto mai più raggiunto dai Pink Floyd, anche quando questi divennero miliardari e furono, in un certo senso, perseguitati dal fantasma stesso di Syd, i cui passi sono ben udibili in almeno tre albums del gruppo che la storia ha voluto, pure fin troppo, premiare. Beh, esistono dischi che non sono soltanto intrattenimento sul quale programmarci sopra delle fredde e talvolta sciagurate analisi. E va da sé che con questi si finisca per instaure un rapporto talmente forte e particolare tanto da vederci la nostra immagine riflessa, in qualche modo. E capirete dunque perché a mio modo di vedere il fatto che Waters in “The Piper at the gates of dawn” abbia firmato un solo brano, quella innocua “Take up thy stethoscope and walk”, sia un mero dato statistico che non fa altro che sottolineare la grande rilevanza di Barrett in quel gruppo. E quanto a conti fatti questo brano sfiguri al confronto coi brani di Syd. Forse perché “The piper at the gates of dawn” è la storia di un grande artista, e non è che una storia triste, un sogno di un artista risvegliatosi in fretta e rimasto traumatizzato dall’uomo Syd Barrett che i discografici stavano vestendo a festa per le sue esibizioni. O forse perché questo disco è l’unico modo che abbiamo per ricordare il madcap, il Crazy Diamond, senza violentarne la memoria e sappiamo come parlare dell’uno voglia dire anche parlare dell’altro. O forse perché, semplicemente, di artisti come Syd Barrett non ne esistono più.