Supersystem: pari e patta…

Il lunedì della capitale accoglie i pochi astanti presenti al concerto dei Supersystem con una pioggia che è riuscita a tenere lontano chi – probabilmente già rari di loro – voleva passare una serata di inizio settimana in giro per concerti. L’atmosfera del Circolo degli Artisti è di quelle da club: pochi gruppi di persone che penseranno bene di non aumentare col progredire della serata seduti ai tavoli per scambiare due chiacchiere e commentare il gruppo di supporto della serata, Noise From The Cellar. Il quartetto romano propone, non senza difficoltà – grazie ad una sorta di maleficio che impone al gruppo di stare più tempo a risettare strumenti e riparare cavi che pensare al pubblico – una formula musicale a metà tra il noise e il rock sguaiato di scuola blues condito da intrecci chitarristici di chiara matrice sonic youth-iana. Sfortunatamente l’esibizione del gruppo è talmente sfuggevole (sei pezzi, per un totale di una ventina massimo di minuti) da non poter capire se realmente il gruppo valeva quelle intuizioni no wave che presentava oppure no, coadiuvati pure da un pubblico non di certo propenso al facile entusiasmo, se non proprio ad una sorta di comportamento feticcio dove tutti chiacchierano con tutti dei classici argomenti che contraddistinguono l’uomo-indie per eccellenza: dischi, live e rarità, mentre l’impegno a stringere mani e riconoscere gli amici (che poi saranno un po’ tutti quelli del locale) è alle stelle.
In tutto questo i Supersystem tentano di fare breccia. Justin Moyer delira sul basso, balla, è impossessato, si direbbe quasi allucinato e soprattutto è un mostro spaventoso di pulizia tecnica direttamente uscito da un band funk piena di neri, mentre pochi minuti prima potevi ritrovarlo curvo sul banchetto del merchandising. Pete Cafarella suona, come su disco, ma con meno verve, stessa situazione alla chitarra, identico Josh Blair alla batteria. L’effetto generale è che i Superystem stasera facciano un favore a suonare alla poca gente accorsa per ballare. Viene proposta un po’ tutta la discografia del gruppo, anche se col passare dei minuti pezzi come My Bird Sing sembrano più doverosi che altro; come dire, se il gruppo suona una improponibile miscela di new wave e elettro, condita con sprazzi dance (soprattutto dopo Always Never Again, dove tentano l’infruttuosa via del più becero punk funk imbastardito con Suicide e Kraftwerk scaduti) su disco, allora è lecito aspettarsi proprio new wave, elettro e dance: quello che si vuole dire con questo è che fondamentalmente nell’intera serata è mancato quel famoso colpo di coda capace di risollevare un ambiente che, col passare del tempo, assomigliava più allo Studio 54 nella sua peggiore serata vicino all’orario di chiusura. Neanche l’ammiccata di Born Into The Wold riesce a smuovere più di tanto un pubblico che, come se fosse stato messo d’accordo prima da un regista in preda a crisi televisive di serie z, balla a comando seguendo il quattro quarti della drum machine e di Josh Blair. Se i Supersystem sembrano suonare più per professione che per altro, il pubblico sembra ballare e divertirsi per riconoscimento, non per vero divertimento. Eppure gli elementi non mancherebbero; sfortunatamente non bastano le citazioni Suicide, né quelle punk funk, tanto meno gli ammiccamenti Rapture. In pratica Supersystem uno, pubblico di Roma uno, partita finita pari e patta, senza colpi di scena – a parte un bellissimo finale di concerto che finalmente riesce a trascinare quasi ogni persona presente a ritmo di dance – e grossi cambiamenti sostanziali. Il gruppo suona, la città ricambia; facile, forse fin troppo, questa volta.