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Il debutto su Epic degli Screaming Trees (in realtà è il loro sesto disco!) coincide a tutti gli effetti con la loro maturità artistica: se infatti il precedente “Buzz Factory” calcava ancora un po’ troppo la mano sulle acerbità underground delle origini e il futuro “Sweet Oblivion” segnerà invece l’apice commerciale della band, sembra dunque legittimo identificare ‘Uncle Anesthesia’ come il disco che meglio esemplifica la classicità dei Trees. Se la produzione ad opera di Terry Date (uno specialista in campo metal…) e Chris Cornell dei Soundgarden sembra sulla carta incentrata ad inasprire gli spigoli di un sound sempre dimostratosi profondamente restio nei riguardi di sonorità spaccone o eccessivamente curate, il risultato è al contrario un lavoro ben calibrato ed immediato, perennemente ondeggiante fra psichedelia selvaggia, hard e incursioni di pop chitarristico sempre sopra la media. Se alcuni rimandi testuali alla nota avventura fantastica di Lewis Carroll (“Alice nel Paese delle Meraviglie”) non fanno che rendere ancora più appetibili certi episodi (“Alice Said”), sono in realtà brani come “Caught Between” e l’iniziale marcia di “Beyond this Horizon” a scuotere maggiormente le coscienze: brani traboccanti di un’epicità indimenticabile, che si snoda dalla trave portante, un impianto hard, attraverso i rami di una psichedelia allucinata e mai incline al piatto rumorismo. La voce di Lanegan si fa sempre più inimitabile, questa volta incrementata da un più maturo approccio alle melodie e al cantato (a differenza delle precedenti release…) e non stupisce che in alcuni frangenti, come nel sogno notturno della maestosa “Before we Arise”, il suo tono grave possa addirittura trasformare una probabile jam improvvisata in studio in un vero capolavoro (e sentite i cori di Cornell…). Altrove vige il sound di una semi ballata (“Bed of Roses”) ancora intrisa di sbilenca attitudine post-punk; o la fa da padrone un grezzo power pop (“Story of her Fate”, con tanto di raucedine da tossico nel finale), lasciando trasparire qua e là anche elementi di coraggiosa e interessante rusticità, come la marcia funebre messicana messa a sottofondo di “Disappearing”. In un frangente, si tocca addirittura l’apoteosi della commistione stilistica, rasentando la definizione letterale di grunge pur mantenendo ben scissi fra di loro i principi costitutivi della finale miscela esplosiva: parlo di “Time for Light”, che parte da un pesante riff devoto ai Seventies e, dopo un’esplosione psichedelica centrale, approda al finale con un prodigioso crescendo in pieno restauro hardcore. Notevole.
I fratelli Conner per tutta la durata del disco non si risparmiano veramente in nulla, nemmeno ai propri poveri strumenti è concessa tregua, impregnati a tal punto di diavolerie distortrici da non farci dimenticare mai più il suono lancinante e dannato di questo album. Così come Lanegan, il maledetto, ci colpisce direttamente al cuore con il suo favellare suadente e al contempo denso di reale disagio, di impotenza e inadeguatezza verso il freddo che da fuori ci cinge sempre di più di inevitabile angoscia.
‘Uncle Anesthesia’ è il vero album sottovalutato del quartetto di Ellensburg, che come tanti suoi simili dal destino affine, può in realtà rivelarsi una provvidenziale (ri)scoperta o, se preferite, semplicemente un amico fidato. Di quelli veri, però.