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Nuovi e fervidi sussulti retro-rock ci giungono finalmente da oltreoceano, dai texani The Sword.
Formatisi nel 2003, è solo grazie a infuocate esibizioni live negli scorsi anni che i loro sforzi di musicisti hanno trovato sfogo in ‘Age of Winters’, il disco di debutto: se fin dalla copertina si presagiscono certe simpatie del quartetto per un genere come lo stoner, io cautamente non me la sento di “castrarli” musicalmente inserendoli ad occhi chiusi in quel contesto; anche perché, se la matrice stoner-doom è chiaramente esperibile su più fronti (direi che per loro è una sorta di punto di partenza…), il discorso viene sempre incrementato di nuove influenze e ammiccamenti, come a non volersi limitare ai soliti dogmi imposti da un genere piuttosto limitante in questo senso.
Parla chiaro fin da subito “Barael’s Blade”, che sintetizza in modo mirabile un suono che parte dagli Sleep vecchia maniera ed approda agli Spirit Caravan, ultimi veri maestri, passando per l’immensità dei primi Down. Ma i legittimi padri ispiratori non vengono certo lasciati in secondo piano, come “Freya” è qui a dimostrarci: così infatti avrebbero suonato i Black Sabbath se non fossero periti senza via di scampo sotto il fuoco di artiglieria dei primi anni ottanta. Da ascoltare. L’eredità Pentagram-Saint Vitus è invece degnamente glorificata dai rintocchi doom di “Winter’s Wolves”, segnata da un’ accoppiata vocale che si fa sempre più apprezzare anche grazie alla squisitezza retrò della sua timbrica.
Ora, così descritto ‘Age of Winters’ sembrerebbe un nuovo capitolo, per quanto ben articolato, di una scena che ormai ha da tempo le mani legate, non riuscendo a scrollarsi di dosso i vecchi stilemi tratteggiati ormai da più di dieci anni, nemmeno per rivolgersi a nuovi percorsi. I The Sword invece risultano maledettamente convincenti proprio quando spingono in questa direzione, mischiando più generi alla volta ma mantenendo la solita impronta di partenza prima esplicitata. “Iron Swan”, al riguardo, prende in prestito un riff direttamente da Kill’em All per innestarlo su di un impianto hard-stoner: è come se , in poche parole, vi trovaste di fronte a una “Dragonaut” (Sleep), suonata da un gruppo thrash metal. Onestamente impressionante.
Man mano che ci si avvicina alla fine del disco, tuttavia, va certificata una leggera caduta di tono che, se si esclude la strumentale e avvincente “March of the Lor” (anch’essa segnata dalla commistione stilistica più selvaggia), riduce i due restanti pezzi a semplici attualizzazioni dei riff di Masters of Reality, non nascondendo neppure un filo di auto-citazionismo quando i nostri forzano un po’ troppo la mano nel ricalcare le atmosfere di inizio disco.
E, per finire, un aneddoto: mi trovavo, la scorsa settimana, in un grigio music-store metropolitano e il disco in questione era casualmente in diffusione. Ora, non ci crederete ma passati cinque minuti eravamo già in tre curiosi al banco informazioni a chieder conto della paternità di tale ciclone sonoro: può essersi trattato di un caso ma, sinceramente, un fatto del genere non mi era mai capitato. Prima d’ora.