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Se dovessi fare il nome di un gruppo che abbia racchiuso in sé personalità tali da apportare singolarmente, nelle varie incarnazioni successive, nuova linfa alla musica Heavy non potrei mai scordarmi dei vecchi Napalm Death. La storica formazione grind-core ha infatti cresciuto talenti del calibro di Lee Dorrian (coi suoi futuri Cathedral), Justin Broadrick (e le sue evoluzioni in Godflesh e Jesu) e lo schivo Bill Steer (con gli indimenticabili Carcass e, appunto, con i più recenti Firebird). La svolta di quest’ultimo è senza dubbio la più coraggiosa e in un certo senso azzardata delle tre, tenendo presente i sapori fortemente blues e classic-rock che da subito hanno caratterizzato la sua nuova avventura: se infatti la grande passione per gruppi come Zeppelin e Free traspariva già in un lavoro concepito certamente su altre frequenze quale era ‘Swansong’ (Carcass), i Firebird possono ora incanalarla al meglio e senza rimorsi attraverso rock possente (“Cross the Line”) e rimembranze personali di psichedelia (“Station” e “Tumblin Down”); il tutto sorretto e corretto dalla particolare timbrica vocale di Steer e dal suo virtuoso stile chitarristico: inspiegabilmente distante appare invece la sezione ritmica, relegata a mo’ di accompagnamento un po’ troppo scialbo. Ma qui va di certo notificata una riuscita opera di riassestamento all’interno della band stessa, cercata e voluta dal suo leader con l’introduzione di un nuovo bassista e batterista dopo l’addio da parte di Leo Smee e Ludwig Witt (entrambi impegnati già negli Spiritual Beggars). Restano solo accennati di conseguenza gli accorgimenti stoner che caratterizzavano i due album precedenti (soprattutto ‘Deluxe’), con forse la sola “Stoned Believer” a cavalcare a briglie completamente sciolte. Per il resto, il blues è ovunque, piuttosto classico (“Friend”) o mascherato da una fitta coltre hard-rock Seventies (“Off the Leash”). Sarà la non trascurabile personalità del nostro a rendermi forse un po’ troppo esigente, ma è proprio in un pezzo come “Long Gone” (parente stretto di “Miles from Nowhere”, sul disco precedente), la semi-ballata più zeppeliniana in scaletta, che i Firebird si fanno un filo tediosi: non certo per una questione di esecuzione, ma per il loro voler calcare troppo la mano su un modello fattosi archetipo nel corso degli anni e di conseguenza divenuto orpello oramai troppo scontato e facilmente smascherabile. Per il resto giù il cappello, la riscoperta e la rielaborazione dei suoni classic-hard-rock non è di certo cominciata con gli australiani (ed ora tanto blasonati) Wolfmother.