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Abbiamo accusato il rock progressivo di essersi ripiegato su sé stesso, di non aver mai trovato la strada per progredire veramente e dire qualcosa di diverso dalla mera rilettura di quelle sonorità che hanno fatto grandi e tronfi alcuni dinosauri bolliti del passato. Che dire allora di un disco come ‘Terramare’ dei redivivi Arpia, gruppo romano tornato sulle scene discografiche dopo un lungo periodo di silenzio. Come definirlo, se non una grande boccata di aria fresca che rinfranca il progressive dalle ingiuste accuse? Quel che emerge, sin dal primo ascolto, è una formula particolare, che parte da superfici progressive per poi accogliere suggestioni psichedeliche, metal, dark e qualcosa del miglior rock italiano. Il risultato è a dir poco stupefacente, un suono fresco e nuovo, adatto a soddisfare chi fosse alla ricerca di nuovi indirizzi sonori, comunque confortevole nei riferimenti sinfonici per chi invece fosse interessato all’ampliamento del proprio universo prog. Spesso permeato da atmosfere scure e taglienti, ‘Terramare’ è lavoro tutt’altro che facile, proprio a causa delle molteplici sfaccettature che caratterizzano l’opera, peraltro orchestrate ad arte dagli Arpia attraverso dodici ispiratissime composizioni, talune più snelle, altre più articolate e ricercate, come si conviene ai grandi lavori del genere. Detto questo non ho alcun dubbio nel ritenerlo un grandissimo disco di affascinanti confini, di incantevoli colorazioni, di sublime coraggio tenuto saldo sotto la bandiera del prog più evoluto. C’è ancora qualcuno che crede che l’Italia non sia un punto di riferimento imprescindibile per il progressive mondiale?