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Non c’è altra spiegazione. Donovan Quinn e Glenn Donaldson si sono addormentati nel 1971 sotto l’effetto di strani succhi di frutta, dopo essersi chiusi in casa per dare anima e corpo alle proprie composizioni (che chissà come ci trasmettono dal sogno….). Ecco la più verosimile chiave di lettura per una raccolta di brani capaci di fermare il tempo non soltanto riportando all’incanto West Coast di un abbondante trentennio fa, ma materializzandone l’essenza. Del resto non fanno mistero della propria nobile discendenza facendone invece un vessillo e dedicando l’opera a quella che musicalmente è senza dubbio la propria terra madre. Forse perché in altri contesti il buon Glenn si cimenta in un opera di riscoperta del folk che proprio perché tale ne comporta una completa ricostruzione (pensiamo all’austero scrigno ‘Jewelled Antler’ e ai più lucenti monili ‘Blithe Sons’ e ‘Thuja’ per esempio…), questo progetto si è invece progressivamente affinato come un vero e proprio omaggio ai padri fondatori, un messaggio d’amore ai super classici Byrds e Parsons, Skip Spence e New Riders Of The Purple Sage, limando in questo quarto episodio della serie le punte più spiccatamente psichedeliche e free che ancora contornavano i propri brani per dedicarsi alla forma canzone pop più diretta e compiuta. Con infinita grazia e diletto. Tanto da non dare mai l’idea di trasformare la devozione in manierismo, in statica riproposizione, ma riuscendo per incanto a suggerne l’essenza, a raccoglierne timbri ed estetica per farli definitivamente propri.
E la musica scorre calda, intensa ed indolente grazie ad una voce da risveglio pensoso, leggermente impastata, ammaliante ma per niente raffinata e proprio per questo unica, e la presenza, per la prima volta, di una band di supporto (Skyband) oltre che di un vero e proprio produttore. Ne deriva una piacevole asciuttezza negli arrangiamenti, tutta Americana, che fa calare (forse definitivamente…) il sipario su quelle suggestioni folk d’Albione che spesso facevano capolino nelle ballate dei nostri. Tra una canzone e l’altra una continuità eccezionale che rende l’album un credibile fotogramma di un istante e di una visione e che mi sembra davvero un peccato interrompere per provare a descrivervene i singoli punti di luce; e l’impressione è che, inesorabile, i Leopardi sospingano un accorato richiamo all’interiorità, un afflato quasi mistico (pensate a “Sally Orchid” e “Silvery Branches”…) che ne pervade le armonie vocale e innalza al cielo sommessi canti di gratitudine. Del resto, come nessuno potrà obiettare ai nostri, Cristo è nato in California.