Dopo dieci anni tornano a Roma gli Opeth, ed è tutto esaurito. Potere del metallo chic (insomma se erano, che so, i The Crown, facevano 23 persone e poi si scioglievano perchè non riuscivano a pagare le bollette. Ah, è successo davvero? Vabbè.)
Comunque Alpheus gremito di metallari di ogni specie, misure di sicurezza al limite del ridicolo, controlli elettronici dei biglietti, “no ragazzi lì accanto alla ringhiera non potete stare”, all’interno del locale un caldo immondo e un terribile inizio: gli Amplifier, che su disco non sono neanche male seppur noiosi e prolissi, con quelle sbavatine tooliane e una certa pretenziosità, fatto sta che dal vivo sono una specie di tortura – eppure c’era svariata gente che li applaudiva ed esultava. Potere, anche questo, del metallo chic.
Con un litro e mezzo di birra in corpo, nel quale nuotavano allegre patatine di sottosottomarche accattate al discount, attendevo l’inizio degli Opeth e intanto mi accorgevo di essere al limite della perdita dei sensi. Ossigeno in rapido esaurimento e temperatura critica, ho visto temerari resistere senza levarsi i molto metal e pesantissimi trench di pelle. Finalmente i protagonisti della serata (30€, ricordiamo) salgono sul palco, Michelino Akerfeldt e compagnia bella imbracciano gli strumenti e attaccano “Ghost of Perdition”, direttamente dall’ultimo album. La precisazione doverosa è che io con i dischi degli Opeth ci sono cresciuto e che almeno cinque li so totalmente a memoria, vederli dal vivo ha avuto per me una certa valenza sentimental-emotiva.
E “Ghost of Perdition” suona male, la voce è bassissima, un paio di imperfezioni chitarristiche e insomma si capisce che ci vuole un’aggiustatina ai volumi. Poi ecco, “Ghost of Perdition” suonata più lenta della versione su disco rompe leggermente le scatole, verso la fine. Iniziavo a temere il peggio, ma per fortuna lo show lentamente decolla, con un paio di incursioni in Morningrise e My Arms Your Hearse, la doverosa “Bleak”, “Face of Melinda”, una leggermente stucchevole “Windowpane”, “The Grand Conjuration”, “Blackwater Park”, uscita di scena ormai talmente abusata da risultare fastidiosa, e poi “Deliverance” per chiudere le danze con un po’ di sana dark evil metal music, per dirla con le parole di quel bravo intrattenitore che è il sig. Akerfeldt.
Sensazione finale: leggerissima delusione. Ok, due ore di concerto di gran classe. Ok, Mikael è un frontman istrionico e divertente. Ok, tutti e cinque sono affiatati e precisi. Però a volte manca la botta, la magia degli stacchi acustici si perde in un pubblico con l’applauso e l’urlo sempre pronto nei momenti sbagliati. E poi la scaletta effettivamente non è delle migliori. Capisco la voglia di suonare qualcosa di vecchio, quel capolavoro di Godhead’s Lament non va bene? E capisco la necessità di una ballatona per far struggere le dolci donzelle malinconiche, perché non fare Harvest? Ma anche Benighted, dai. E se proprio vogliamo restare su Damnation, c’è la bella Closure, perché inchiodarsi sette minuti sulla noia di Windowpane? Ultima clamorosa assenza poco giustificata è quella di The Drapery Falls, forse a scapito di Blackwater Park, che si poteva evitare. Sono noioso, mi rendo anche conto che suonare sempre la stessa scaletta non è esattamente esaltante, e che quando hai un parco di canzoni così ampio tra le quali scegliere è giusto variare, però sono dieci anni che non venivano a Roma, io ho pagato trenta euro (30€!) per vedermi due ore di uno dei gruppi fondamentali della mia adolescenza e penso di poter rompere un po’ le scatole in merito. Per il resto, rispetto e onore a uno degli act metal più interessanti di questi anni.
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