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Dura la vita di chi, sulla scena ormai da qualche anno sui rischiosi binari dell’electro-rock, continua a vedersi sorpassare a destra da una miriade di compatrioti pivelli, sulla via del successo facile. Nell’Inghilterra delle meraviglie, dove vieni eletto next big thing del momento ad ogni sorso di tè, i Cooper Temple Clause sono un’infelice eccezione: elogiati ma non troppo, compricchiati ma mai davvero comprati, una mezza hit l’album passato qualche buona posizione in chart ma poco di più, mentre gli illustri sconosciuti di cui sopra tentano ( e riescono ) la scalata. Forse è a questo tipo di fama fai da te che si riferisce la frase del titolo: la band decide allora di “farsela da sé” e partendo con il nobile intento di mettere ordine tra le idee dei due capitoli precedenti finisce per riassettare anche i cassetti altrui. Da metà in poi la tracklist si fa particolarmente eclettica, allusiva, derivativa, citazionistica… alla stregua di una compilation. Interpol, Placebo, il brit pop dei Blur e gli U2 di Zooropa, ci sono proprio tutti! Le influenze che nei dischi precedenti erano state tacciate come “troppo pesanti” – Radiohead, Primal Scream – impallidiscono d’innanzi a questa minuziosa sequela di voghe del momento, che diluisce di brutto una formula piuttosto originale. I CTC con le loro belle promesse rimangono aggrappati ad un tre, quattro brani in tutto e il resto è stato tristemente trascinato via dal di fuori… ne uccide più il mercato che la spada.