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Unire punk e blues in un’unica creatura è una delle perversioni ricorrenti fra i rocker di professione: qualcuno se l’è concesso come sfizio, una tantum (vedi Tom Waits che flirta coi Ramones o lo stesso Joey che ricanticchia Louis Armstrong…) qualcun altro, come Jeffrey Lee pierce vi ha immolato tutta la propria vita artistica. Da parte sua, Nick Cave ha sempre tenuto le cose in cassetti separati: la furia dei Birthday Parties prima, il dark-cantautorato poi, fino alle celeberrime ballads di non ritorno e al recente periodo da “ripulito”, quando l’ex poeta svoltò verso la vita d’ufficio. Oggi, all’alba dei suoi primi cinquanta, sembra tornare sui propri passi. Per carità, nessuna faccia davvero nuova in questi Grinderman, piuttosto un’edizione ridotta dei Bad Seeds con il solito Hugo Race alle sei corde… ma stavolta Cave imbraccia una chitarra. E, come lui stesso ha già testimoniato in passato, tra il pianoforte e la chitarra c’è di mezzo il mare, l’oceano se si parte dalla scrivania: molti di questi brani arrivano dritti da delle jam session, molti altri sono rimasti delle jam session, (il singolo “No pussy Blues” dove Cave più che cantare, declama le sue frustrazioni d’amore sulle linee di basso e chitarra altrui). Il formato relazione-a-quattro garantisce di certo un impatto molto più corposo ed uniforme rispetto alle ultime stesure su schema Nicola e la band: ma niente retorica da Back 2 the Roots o roba simile. Il mezzo secolo di Nick e compagni qui si fa sentire tutto, negli accorgimenti, nelle trovate nei disinvolti cambi di registro, in una semplicità che però è tutta di ritorno: in Grinderman si trovano ad un tempo il sesso e la senilità. C’è la rabbia e l’amarezza. La distruzione e la narrazione. Il punk e il blues…