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Lo potremmo senza esagerazioni considerare il segreto meglio custodito del cantautorato di casa nostra; commento oltremodo lusinghiero, ma nell’esprimere il quale provo una sensazione di leggera amarezza perché fondamentalmente è solo un gran peccato che sia ancora celato ai più.
Da qualche anno Adriano Modica è lì, in un cassetto socchiuso, si lascia osservare ma con discrezione e forse poca dimestichezza con gli ormai consueti e sin troppo meccanici congegni di promozione (e difatti girando per il web troverete ben poche pagine che lo riguardano, a dimostrazione che delle sue autoproduzioni ne ha fatto decisamente un parco utilizzo…).
Non avevo ascoltato che stralci delle sue registrazioni e raccolto pareri da persone di fiducia che ne tessevano inusitate lodi, ma devo soltanto allo stesso Adriano la possibilità di mettere le mani sul suo ‘Annanna’ del 2005, primo vero e proprio album dell’artista dopo il mini ‘Iano’ del 2001 e il progetto per il teatro ‘Ingranaggi’ del 2003. Classe 1977, reggino,si trasferisce a Roma dove consegue la sua brava laurea in psicologia vegetale ma, a leggere la sua biografia, una volta “scartati i mestieri di pilota di aerei, di palombaro, di spaventapasseri, di Zorro, di astronauta e di venditore di detersivi gli resta l’ultimo sogno: fare l’Uomo Tigre”.
Rendiamo grazie allora all’oramai stagionato Naoto Date per non avere abdicato al suo costume felino ed avere così costretto Adriano ad affogare i suoi rimpianti nella musica, altrimenti ci saremmo persi una delle più riuscite raccolte di canzoni di questo decennio tricolore. Se volessimo affiancargli dei degni compagni di strada dovremmo scomodare Paolo Benvegnù e Marco Parente, con i quali andrebbe a costituire un ipotetico trittico di cantautori “irregolari”, disallineati. Poesia che si fa canzone, ballate ora introspettive e altrove accese come fari nella notte del mare scuro, ma dalla struttura sempre pronta alla divagazione, alla via di fuga, all’elemento straniante che ne arricchisce l’eloquio e le sfumature e mai si perde nel gioco da intellettuale allo specchio. Ricordi d’infanzia e sincopi di batteria ci cullano nella strepitosa “Le sirene dello stretto”, la cui implosione elettrica e quei cori ipnotici danno l’idea di un autore capace di giocare col caldo e col freddo. Parte frenetica e swingante nel ritmo “Sapone verde”, e quella voce amicale ed accorata svela punti di congiunzione con il miglior Gazzè e Sinigaglia (“bimbi con le rughe/che sono stati grandi però non gli è piaciuto”…). Ciondola come un sirtaki nel buio la title track ed è ancora forte il sapore del mare e l’incanto dell’orizzonte (“queste lenzuola sembrano di ferro/e poi questo silenzio di cose zitte apposta non mi piace”…); probabile apice del disco “Cassetti chiusi a chiave” dalla melodia di una purezza che commuove e carezza, di quelli che in un paese non corroso dal vizio troveresti sul podio del Tenco se non a Sanremo, a giocarsela con “A.C.N.E.”, che è il momento della deriva e della preghiera, Santissime dei Naufragati vogliate esaudire le preci delle anime in pena (cos’altro è quel deliquio di piano e corde se non un pianto?).
Un’opera che mostra un talento cristallino e alla quale spero venga data la chance di una ristampa postuma che permetta alla nazione musicofila di innamorarsene e spanderne le gesta a perdifiato. Pare in ogni caso che il nostro Adriano abbia trovato asilo presso la sempreverde Trovarobato e si accinga a fare uscire un nuovo album. Vi rimandiamo a quella uscita e per intanto vi invitiamo caldamente a non commettere l’errore di trascurare questo nome.