Ora, io non so nulla delle pretese live, dei modi e delle dinamiche dei Pere Ubu quando salgono su un palco, e quando ci salirono più di venticinque anni fa. Per amor di verità non ho ancora oggi neanche ascoltato, dopo un imperdonabile anno, l’ultimo lavoro in studio dei nostri – anche se con un titolo del genere in condizioni normali avrei urlato al capolavoro a prescindere (‘Why I Hate Women’, che gli vuoi dire a un titolo così irriverente e polemico?). La verità è che uno ha paura, soprattutto a fronte di reunion (che reunion non è in verità, ma in un certo modo così si pone) che hanno dimostrato di avere lo stesso appeal e contenuto di un ritrovo di vecchi compagni dell’oratorio superata la soglia dei quarant’anni (togliete da questa lista il nuovo Throbbing Gristle e pochi altri e i nomi vi esploderanno in testa in un baleno lasciando un terribile eco della madonna); quindi perché farsi del male? Col senno di poi non c’ho veramente capito nulla, e me ne pento. David Thomas non è invecchiato vocalmente di un millimetro, è giusto ingrassato – cosa che dà al tutto l’organico una presenza scenica fantastica: il vecchio artista ubriacone, il gremlin sotto anfetamina alle quattro corde, un pazzo alle pelli, un probabile misantropo alla chitarra e un contadino al theremin, in sostituzione del synth perso dalle linee aeree britanniche. Appena attaccano a suonare è l’inferno: acuti e sfrontati, platealmente teatrali con David Thomas nella molteplice veste di declamatore / vocalist / performer / barbone / ubriacone / comico; maneggiano fantasmi con disinvoltura tale da farti pensare che probabilmente il cadavere di Elvis e lì in mezzo a noi, pubblico in completa catarsi, a ballare e prendere una birra al bancone. E’ decisamente punk, questo è ovvio alle orecchie di tutti dopo appena un paio di secondi: la batteria non lascia scampo, è inarrenabile, terribile a tratti anche monotematica ma ci sta tutto perché a lacerare ci pensa il resto del gruppo: sullo sfondo del monolite che accompagna di volta in volta rockabilly, blues, punk, hard rock c’è una schizofrenia da far spavento: ogni pezzo viene letteralmente smontato e rimontato, reso instabile e autistico dal thereminista che con gesti ampi e dissacranti manipola frequenze radio e onde, riempie gli spazi, prende per il culo tutti. David Thomas tra una canzone e l’altra beve da una fiaschetta, a dire la verità beve anche durante le pause strumentali, anzi, ad un certo punto si allontana per bere, poi lo si vede impugnare una birra e.. insomma è ubriaco come una merda (mi si perdoni il francesismo). Il tutto si svolge così: parodiando forme di new wave, hard rock e punk. Da parte mia mi sono realmente stupito quando mi sono messo a costatare quante piccole citazioni ci fossero dentro un solo pezzo, ho lasciato da parte ogni espressione nichilista, catastrofica (rinvenuta comunque durante l’esecuzione di “Modern Dance” e “Final Solution” – e ci mancherebbe) e mi sono trovato a ballare insieme al cadavere putrefatto del rock. Figata.
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