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Un fiorire. Uno sbocciare. Le partiture zorniane presenti nel ‘Book Of Angels’ (in questo caso si tratta del ‘Volume 3’) sembrano quanto di più fruibile e incantevole il sassofonista abbia prodotto negli ultimi anni. Tra le sterminate pagine da lui scritte appositamente per l’esecuzione di musicisti altri da sé, questo episodio lascia qualcosa in più; è narcisistico affermarlo – ma potenzialmente assai lusinghiero nei confronti dell’autore: Zorn non rinuncia all’eterogeneità e all’approccio trasversale nel blend stilistico che propone, eppure mantiene un riguardo costante per l’ascoltatore.
Lui ci pensa, non ci dimentica mai. In questo caso siamo noi i narcisi, a lui il compito di plasmare uno specchio d’acqua che sia sufficientemente seducente da tenerci in sua prossimità, dediti all’ascolto e alla contemplazione del nostro piacere. Veniamo presi per mano e condotti nella galleria plurisecolare della musica moderna e oltre; una formalizzazione aggiornata di un processo di rottura e sintesi che dura da almeno cent’anni. E Zorn vi riesce, tiene acceso l’interesse, stimola la curiosità, ricongiunge allo stupore, ma sempre di “ascolto” si tratta: non infrange mai il muro del suono, non si concede derive estreme che darebbero un’audacia sterile alle composizioni, è piuttosto un gallerista che organizza la nostra visione applicando con sapienza e controllo i principi del contrasto. Il ‘Volume 3’ è una lezione di dosaggio, di coerenza possibile pur nella centrifuga di stilemi e cliché espressivi prodotti dagli esecutori; è una classicità postmoderna che risulta possibile e raggiunta, infatti il valore aggiunto del disco è il suo non essere alternativo… questo non fornire una sensazione di appagamento derivante dalla consapevolezza di ascoltare “un disco difficile” o un “esperimento sonoro”. Le facili caramelle non ci vengono elargite, e nella compostezza del nostro ascolto afferriamo un piacere ormai raro, ovvero un narcisismo audiofilo del tutto aristocratico, composto, educato.
Non importa che un frammento della ‘Carmen’ di Bizet venga citato a mo’ d’intermezzo dada (l’effetto “Gioconda musicale” è fulminante in Kafziel), o che le atmosfere sinfoniche e i barocchismi si spezzino in favore di lascive fughe free oscure e timbricamente eccessive (Basus); non importa che Feldman (violino) e Courvoisier (pianoforte) esplorino un po’ tutte le possibilità del tocco sullo strumento (Padiel) inscenando la rappresentazione della loro esperienza di esecutori, né ci si sofferma – come fine ultimo – sulle straordinarie capacità interpretative di questi due musicisti (un esempio su tutti, la bizzarra e stregata linearità espressiva della conclusiva Sretil e il controllo degli eccessi operato dalla Courvoisier).
Al termine siamo coscienti d’aver fruito di un’esperienza musicale liminale, che ha messo in discussione il confine labile tra “esperimento” e “composizione compiuta” in senso classico, afferrando a sorpresa questa seconda qualifica e offrendoci un ascolto integro e intelligente senza mai rinunciare all’importanza – preziosa – riservata alle emozioni. Per una volta, l’autore ci concede la possibilità di dominare quella che è un’avventura sublime.