The Felice Brothers: Tre fratelli e un amico

Tre fratelli e un amico di nome ‘Christmas’, Natale per noi italiani; sullo sfondo, il fiume Hudson che bagna l’Upper State NewYork. È in questo ambiente che si formano i Felice Brothers. Nel loro debutto ‘Tonight At The Arizona’ è racchiuso il freddo dell’inverno ed il caldo tepore tinto del rosso di una fiamma tanto consolatrice quanto effimera. Un disco “vecchio” come la buona legna da ardere, capace di rievocare i ricordi anche del più burbero e misogino degli uomini.

E’ con le loro canzoni nel cuore che andiamo a vederli e ascoltarli nel loro primo concerto italiano, il terzo in Europa. Il luogo prescelto è La Casa 139, a Milano, un locale che ha il pregio di dare la sensazione a chi ascolta e chi suona di essere in un posto speciale. C’è curiosità per ciò che stasera saranno in grado di offrire e se il loro set sarà all’altezza del loro disco d’esordio così intenso e fragile, suonato dal “vivo” per necessità più che per scelta.

I Felice Brothers fanno tutto da soli: tocca infatti a James, il pianista e fisarmonicista, “aprire” il concerto improvvisando sul piano melodie domestiche inframmezzate da canzoni di Loggings & Messina… L’atmosfera, complice la dominante bluastra delle luci sul palco, si fa sempre più intima e l’arrivo della band al completo che si lancia in uno stomp indiavolato e sbilenco è come quando viene messo nel fuoco un ceppo di legno poco stagionato: il fuoco prende vita e inizia a scoppiettare mentre la fiamma cambia vorticosamente colore e sfumature… “Glory Glory Halleluja, since I lay my burden down!”

C’è tutta l’innocenza di un gruppo esordiente e la profondità di una personalità musicale così già profondamente definita che esce in canzoni come ‘Ruby Mae’ e la bellissima ‘Ballad Of Lou The Welterweight’: “Un pugile amico di nostro nonno” ci tiene a precisare Ian, il chitarrista cantante, con la faccia a metà tra Sean Penn e Dickey Betts della Allman Brothers Band. Il loro passato di musicisti di strada è alla base del loro modo di intrattenere, intrattenendosi a loro volta: si guardano, ridono, scherzano e chiedono al pubblico di unirsi a loro, di prendere il buono ed il cattivo che ogni giorno porta con sé. Loro per primi lo accettano e vivono del momento di pura poesia che è ‘The Devil Is Real’ cantata da Simone, il vero istrione e animale da palco, ma anche dei cori imperfetti di ‘Frankie’s Gun’.

The Felice Brothers non raccontano l’America, non vogliono cambiare il mondo, cantano di ciò che vedono dalla finestra del loro appartamento al secondo piano: l’immobilità di un mondo frenetico e nevrotico. Lo fanno con canzoni lente e pesanti, con un tono sommesso ma deciso che colpisce più di cento chitarre elettriche. Sono il prodotto di un passato ormai troppo lontano per non essere rimpianto o ricordato con affetto unito ad un’ immaginario in cui presente e passato sono difficili da scindere e di cui Simone, Ian, James e Christmas sono i perfetti protagonisti. Magari fosse sempre così.



Foto di Matt Giuliani